Ira, gola, avarizia, lussuria, accidia… ormai abbiamo parlato di quasi tutti i sette vizi capitali, mancano giusto invidia e superbia. Oggi tratteremo proprio quest’ultima, la colpa di chi si vede troppo grande – o troppo piccolo, per certi versi – rispetto agli altri.
Superbia: credersi un leone, senza rendersi conto di essere un micio
Termine di origine latina, indica l’atteggiamento di chi ha troppa stima di sé. Quando, poi, la convinzione è portata all’estremo, ben oltre i limiti della sana autostima, il risultato è l’arrivare a guardare il mondo dall’alto, rivolgendo a chiunque si trovi in una condizione diversa – o semplicemente a tutti gli altri – uno sguardo di superiorità. È quel comportamento che mette al centro l’io, il soggetto, e lo vede come il vertice del mondo, una stella scintillante, molto distante dagli sporchi insetti che popolano la terra.
È proprio nella sua sfumatura più estrema, che un tratto caratteriale – positivo o negativo che sia – diventa un vizio capitale. Per la Chiesa cattolica, infatti, il superbo è colui che pone così tanta importanza nella propria esistenza, da compararsi a di Dio, da elevarsi allo stesso livello della divinità.
Non posso fare a meno di pensare che la superbia sia il vizio che corrompe moltissimi degli antagonisti dei romanzi, che sia il punto di vista preferito adottato dagli autori, quando vogliono far parlare una mente un po’ deviata e dalle delusioni megalomani. Per esempio, Voldemort e tutti i suoi Mangiamorte sono imbarcati in una lunga battaglia contro il mondo magico, giusto? Perchè loro, dal sangue puro, sono destinati a regnare sul resto dei maghi, e a sottomettere i babbani. Se non è superbia questa…
O, ancora, gli abitanti di Capital City – Hunger Games di Suzanne Collins – considerano di così poco conto le vite degli abitanti dei Distretti, da creare un enorme show intorno al massacro annuale di ventiquattro ragazzini (un po’ alla Teseo e il Minotauro, se posso permettermi). Particolare è come qui il sentimento sia più strisciante, affogato nel denaro e negli abiti vistosi della capitale. Tuttavia, per quale altro motivo sentirebbero la necessità di esibire i Tributi in una sfilata, poco prima di gettarli nell’arena, se non per sottolineare la propria superiorità?
Oppure, in modo meno distintivo, spesso si ammantano di suberbia anche i personaggi – spesso maschili – di molti romance, soprattutto del filone dark e mafia. Non è raro incontrare in queste storie tenebrosi bell’imbusti seduti al vertice della piramide alimentare che guardano con disgusto a tutti i galoppini, abbarbicati sui gradini più bassi (ovviamente poi ci sono anche i boss che considerano la gang la loro famiglia, ma questo è un altro discorso).
Le stesse sorellastre di Cenerentola altro non sono che due superbe, troppo impegnate a cantare le proprie lodi, per rivolgere anche solo uno sguardo o un gesto gentile a quella che è a tutti gli effetti loro sorella, ma che non considerano altro se non una sguattera.
D’altro canto, molto spesso persino gli eroi sono avvolti da una patina di superbia – almeno un po’. La letteratura, soprattutto fantastica, è costellata da “predestinati”, da personaggi che possono porre fine al regno del malvagio, ma soltanto agendo in prima persona, forti delle loro qualità particolari e fuori dal comune.
L’altra faccia della superbia: il vittimismo
Nel momento in cui si iniziano a considerare le proprie imprese, le proprie sensazioni, le proprie conquiste come immensamente più importanti di ciò che chiunque altro possa mai raggiungere o provare, compiere il passo in negativo è molto veloce.
Non più il più forte, potente, fortunato, ci si immedesima nel più preso di mira, infelice, tormentato. Si iniziano a vedere gli ostacoli come insormontabili – “altro che quel semplice dosso, il mio è un muro” – i dolori come impronunciabili – “non cercare di consolarmi, tu non puoi capire” – le disgrazie inevitabili – “sempre tutte a me capitano, non me ne va mai bene una“. Insomma, la propria immagine mentale diventa quella della vittima per eccellenza.