L’accidia è uno dei sette vizi capitali, forse uno dei meno conosciuti. L’accidia è l’indifferenza e disinteresse verso ogni forma di azione e iniziativa. Il peccato è stato trattato maggiormente in passato.
Cos’è l’accidia
L’etimologia della parola è sempre il nostro punto di partenza: accidia deriva dal latino acidĭa(m) o acedĭa(m) e ricorre anche nel greco. La sua definizione si riferisce senza dubbio al comportamento di una determinata persona e il suo utilizzo si lega, per questo, al giudizio verso qualcuno o qualcuna.
In generale per accidia si intende l’atteggiamento avversivo nei confronti dell’agire unito al tedio. Per usare dei sinonimi potremmo dire pigrizia, inerzia, indolenza e così via.
Una definizione ulteriore è quella legata al mondo religioso, in particolare cattolico: in questo caso l’accidia identifica ugualmente l’indolenza nell’operare ma riguarda in particolare le azioni buone, il “fare del bene”.
Il cattolicesimo inserisce l’accidia tra i sette peccati capitali e a parlarne è anche Dante Alighieri nella conosciuta Divina Commedia.
L’accidia in Dante
Dante Alighieri colloca nel Purgatorio gli accidiosi. Sono i penitenti che scontano la loro pena nella IV Cornice del Purgatorio, colpevoli di scarso amore per il bene: sono costretti a correre a perdifiato lungo la Cornice, gridando alternativamente esempi di sollecitudine e accidia punita, incitandosi a non perdere tempo per poco amore.
Dante descrive la loro pena nel Canto XVIII del Purgatorio e include fra essi l’abate di San Zeno a Verona, che si presenta come colui che ricoprì questa carica al tempo dell’imperatore Federico Barbarossa. Il penitente ricorda che Alberto della Scala, signore di Verona con un piè dentro la fossa (allude alla morte imminente di Alberto, avvenuta nel 1301), si pentirà presto dell’abuso compiuto verso quel monastero, poiché impose come suo abate il figlio Giuseppe, illegittimo e indegno moralmente di ricoprire quella carica come di intraprendere la carriera ecclesiastica.
Giuseppe della Scala fu effettivamente abate del monastero dal 1292 fino alla morte (1313) ed è indicato da varie fonti come uomo dai costumi dissoluti; quanto all’identificazione dell’abate posto da Dante fra gli accidiosi, essa è molto incerta e nulla si sa del motivo per cui l’abbia incluso in questa Cornice (alcuni interpreti hanno pensato a un pretesto per colpire con la sua polemica Giuseppe della Scala, ma pare poco probabile).
Le differenze con la pigrizia
L’accidia è la tentazione all’insoddisfazione, a lasciar andare tutto senza concludere niente. Assalta la sua vittima proprio sul più bello, quando il lavoro è già avviato, quando è il mezzogiorno. Si potrebbe pensare che somigli alla pigrizia, e invece è proprio il suo opposto. La pigrizia è un’inerzia dolce e carezzevole, è il piacere di non fare niente, l’accidia, tutto al contrario, è un tormento, una frenesia grottesca perché inconcludente. La pigrizia può essere piacevole, l’accidia fa di tutto per non esserlo mai, è forse per questo il più bizzarro fra tutti i vizi capitali. A differenza di tutti gli altri, non conosce soddisfazione; o meglio, la sua sola soddisfazione possibile è l’insoddisfazione. È un supplizio di Tantalo in forma di vizio.
Proprio perché la sua unica soddisfazione è nel vedersi fallire continuamente, l’accidia porta a sdoppiarsi e a contemplarsi. Richiede molto tempo e introspezione, la pratica dell’accidia; potrebbe permettere all’accidioso di auscultarsi e rappresentarsi con meravigliosa precisione, se solo la precisione non richiedesse cura e pazienza – quel che l’accidia aborre. È una sorta di onanismo masochistico, o di masochismo onanista; è un vizio da artisti.