Quello di Saffo è un nome che si ricorda, soprattutto perché, in un’antichità classica in cui dominano personalità maschili, in cui le donne non sono altro che ombre, muse, o pretesto di guerra, lei è una poetessa. È lei che scrive, è lei che si racconta con versi così splendidi e forti da reclamare l’attenzione e la stima dei suoi contemporanei e di coloro che vennero dopo.
Tuttavia, come accade troppo spesso nel grande racconto storico quando si tratta di donne (spesso ricordate come mogli, madri, sorelle e figlie di un uomo, e non con il proprio nome) anche le vicende di Saffo ci sono piuttosto oscure.
Saffo, la poetessa che inventò la strofa e che cantò l’amore tra donne
Di Saffo sappiamo che nacque nel 630 a. C. circa, a Eresos, nell’isola di Lesbo, e che morì, sempre pressappoco, nel 570 a. C. a Leucade. A narrarci la sua vita, o quanto meno gli episodi che sono sopravvissuti, sono fonti esterne a lei coeve e successive, greche ma anche romane, che riprendono la vita della poetessa. Tuttavia, purtroppo, l’attendibilità di queste voci è dubbia, e non c’è ovviamente modo di verificarle. Possiamo però prendere per vero ciò che di lei ci dicono le sue liriche, sempre tenendo a mente che i versi potrebbero, a volte, anche non riferirsi al suo vissuto in prima persona.
Pare che Saffo fosse nata in una famiglia aristocratica, che sia vissuta per un periodo in Sicilia – seguì i suoi familiari in esilio – prima di tornare al suo paese natale, dove, grazie alla sua vasta cultura, divenne istitutrice e direttrice di un tiaso, una sorta d’istituto a cui accedevano gruppi di fanciulle di famiglia nobile, per essere formate nelle arti e negli aspetti di vita sociale la cui padronanza era considerata allora indispensabile per essere una brava moglie. Nello specifico, tali doti erano: un atteggiamento elegante e raffinato, la capacità di sedurre, il canto, la delicatezza, la grazia e l’amore.
Alcuni testi dicono di Saffo che fosse una donna bellissima, altri, al contrario, affermano che il suo non rientrare nei canoni l’avesse portata a gettarsi da una scogliera dopo aver visto rifiutato il suo amore per un uomo più giovane – uomo la cui esistenza è accertatamente mitologica. Più sicura pare essere la presenza di una figlia, Cleide, a cui la poetessa dedicò dolci versi.
Per quanto riguarda le sue opere, oggi non ci rimane che qualche stralcio, principalmente per un paio di motivi. Prima di tutto, gli otto o nove volumi in cui i bibliotecari della Biblioteca di Alessandria avevano suddiviso le sue opere andarono andati bruciati con la biblioteca stessa. A ciò si va ad aggiungere la mancata trascrizione e trasmissione dei componimenti in epoca più tarda, in quanto gli intellettuali – sia classici sia cristiani (che, ricordiamolo, per moltissimi secoli furono quasi esclusivamente clerici) – trovavano sconvenienti i versi d’amore che Saffo potrebbe aver dedicato ad alcune delle giovinette che frequentavano il suo collegio.
Perché le opere di Saffo parlano principalmente d’amore, di seduzione, d’infatuazione e gelosia, rivolgendosi a una pluralità di voci e generi. Spesso tutti questi sentimenti ed emozioni sono espressi dalla poetessa in modo diretto, rivolgendosi a qualche dio o dea – come avviene nell’Inno ad Afrodite, l’unica poesia pervenuta integra – o ad altri essere umani. Interessante è però il fatto che Saffo non si limita a ricordare l’amore, ma analizza anche le ripercussioni psicologiche presenti e passate di tale sentimento.
Ciò per cui è, però, forse più nota sono i brani in cui proclama un amore omosessuale nei confronti delle allieve del tiaso; non a caso il sentimento romantico tra due donne prende il nome di lesbico o saffico, sebbene accenni a relazioni fisiche non siano presenti in gran numero.
Spesso le poesie si rivolgono alle ragazze che stanno per passare dalla scuola al talamo nuziale, per diventare delle mogli i cui compiti saranno soltanto generare figli e badare alla casa, senza mai lasciare i confini della proprietà. Inoltre, è bene ricordare che nell’antica Grecia i rapporti omosessuali non erano evento raro, anzi, soprattutto nel caso delle giovinette erano considerati come un mezzo per imparare e fare esperienza in previsione del rapporto eterosessuale con il marito.