Buonasera caro Icrewer! Eccoci tornati nel consueto appuntamento con Spazio ai Classici, la rubrica che esplora gli autori e i testi che hanno segnato la storia del panorama letterario europeo (e non solo) nell’ultimo secolo.
Oggi voglio tornare a parlare di un autore che, probabilmente già conosci: Herman Melville.
Dopotutto, chi non ha mai letto o sentito parlare di Moby Dick? La famigerata balena bianca ha, infatti, incantato l’immaginario collettivo non solo in letteratura ma anche nel cinema e persino nei videogiochi!
Oggi, però, voglio parlarti di un’altra opera, un racconto intitolato Bartleby lo scrivano.
È universalmente riconosciuto come il suo racconto più famoso e che ha impegnato (e impegna tuttora) frotte di critici sulla sua interpretazione.
È una storia ben diversa dal tono epico e quasi fiabesco di Moby Dick seppur non manchino analogie tra i suoi personaggi. E dunque, se questa breve introduzione ha suscitato un po’ di curiosità, allora aspetta di leggere il resto!
Bartleby lo scrivano: la trama
Ci troviamo in uno dei tanti uffici di Wall Street a New York. Il narratore si presenta come il titolare di uno studio legale che si occupa di svariate attività. Ad aiutarlo nelle sue mansioni ci sono i suoi tre collaboratori:
Tacchino è un uomo un po’ avanti con gli anni, mite e operoso sebbene sia un po’ trasandato nell’aspetto. La mattina si dimostra di un’efficienza inarrivabile ma dopo mezzogiorno il suo zelo si trasforma nella più impacciata delle goffaggini. Per qualche strano motivo, infatti, nel pomeriggio si agita, si innervosisce e finisce per causare disastri e non prestare troppa attenzione al suo lavoro di scrivano.
Pince-Nez, invece, è la sua nemesi. Il narratore (di cui non conosciamo nemmeno il nome) ci spiega che le sue nevrosi sono dovute a “cattiva digestione” che lo rende intrattabile al mattino ma particolarmente efficiente nel pomeriggio. A mantenere l’equilibrio tra questi strampalati scrivani c’è Zenzero, un ragazzino che fa da factotum dello studio. Il suo nome deriva dalle focaccine allo zenzero che il ragazzo dispensa in grandi quantità ai suoi colleghi.
Il successo dello studio legale induce il nostro narratore a scegliere di prendere un altro scrivano. Si tratta di Bertleby una figura «pallidamente linda, penosamente decorosa, irrimediabilmente squallida». Ma il nostro avvocato accetta di buon grado l’uomo, ormai abituato alle stramberie dei suoi dipendenti.
E Bertleby, inizialmente, si dimostra un lavoratore indefesso, ricopiando in maniera eccellente e senza alcuna lamentela qualsiasi tipo di pratica, anche la più lunga e complessa. Si rifiuta, tuttavia, di svolgere qualsiasi altra mansione o di rispondere a qualsiasi domanda posta dagli altri. Sembra, infatti, che l’unica cosa che sia in grado di dire sia «Preferirei di no».
Passano i giorni e le settimane e sebbene tutti avessero deciso di chiudere un occhio su quell’ennesima eccentricità, Bartleby, di punto in bianco, smette anche di ricopiare le pratiche e di fare lo scrivano. Se ne sta tutto il giorno a fissare la finestra del suo studiolo e il muro di pietra che si trova al di là. Il principale cerca in tutti i modi di farlo ragionare, di cercare di comprendere le ragioni del suo rifiuto e si offre persino di aiutarlo economicamente per trovare una casa (Bartleby, infatti, viveva nello studio) e un nuovo impiego. Ma niente, Bartleby si limitava a ripetere il solito motto: «Preferirei di no».
Esasperato e non sapendo più cos’altro fare, il narratore ci racconta d’aver deciso di trasferirsi in un nuovo studio, lasciando lì il povero Bartleby che continuava a non muoversi neanche dopo essere stato licenziato. Tuttavia altri legali si lamentano di questa inquietante presenza che, come un fantasma, continua ad infestare lo stabile, destabilizzando l’attività di tutti.
Vani sono i tentativi del nostro avvocato di ragionare con lui e alla fine la polizia, richiamata dagli altri legali, lo porta via rinchiudendolo nelle Tombe, le vecchie prigioni della città. Qui il suo ex datore di lavoro torna a fargli visita ma Bartleby lo congeda freddamente con un «La conosco, ma non ho nulla da dirgli». Qualche giorno dopo tornando da lui l’avvocato scopre che Bartleby non ha mangiato nulla e si è lasciato morire di fame. Lo trova, infatti, nel cortile delle prigioni disteso a “dormire” «con i re e i consiglieri».
Il significato del racconto
Bartleby lo scrivano venne pubblicato anonimamente nel 1853 in due puntate su una rivista newyorkese. Come molti altri scritti di Herman Melville il racconto non riscosse alcun successo. Del resto il pubblico di allora difficilmente avrebbe potuto comprendere la genialità di questa novella. I lettori dell’epoca erano, per lo più, gente benestante in cerca di qualcosa di divertente e stuzzicante, magari da leggere in pausa pranzo o al mattino.
In Bartleby lo scrivano, però, non succede assolutamente niente. È una lunga, a volte anche pomposa, narrazione di un avvocato che, non a caso, è fiero di tenere nel suo ufficio il busto di Cicerone di cui ricalca la prosa perfetta e lineare. E lo stesso Bartleby, per quanto il lettore potrebbe rimanere incuriosito nel cercare di scoprire le ragioni del suo bizzarro comportamento, non concede nulla e non racconta assolutamente nulla di sé stesso.
A dispetto della fredda accoglienza che questo racconto ebbe tra i suoi contemporanei, come lo stesso Moby Dick scritto appena due anni prima, i moderni invece hanno subito colto il fascino di questa storia.
Frotte di studi e interpretazioni si sono susseguite nel corso dell’ultimo secolo tanto che Gianni Celati, in un’edizione della novella del 1991, dichiarò di aver trovato almeno un’ottantina di “significati” di Bartleby, sparsi tra libri, rivisti e articoli vari.
Tra le tante interpretazioni c’è quella che vede in Bartleby un tributo alla religione cristiana, per le tante citazioni evangeliche presenti nel testo, o viceversa c’è chi vi ha letto un tributo alla contemplazione buddhista orientale. Non manca letture più “psicologiche” come quella che vede nel rifiuto di Bartleby al lavoro una critica sociale alla figura dell’operaio alienato da sé stesso. Altri ancora vi hanno visto una metafora del blocco dello scrittore nella figura di quest’uomo che non riesce più a scrivere.
La verità, forse, è che tutte queste letture sono insieme validi ed inutili. Perché Bartleby lo scrivano magari non vuole dire assolutamente niente. Non c’è metafora dietro alla figura di questo povero scrivano che osserva il mondo scorrergli davanti senza riuscire ad afferrarlo. Proprio come faranno molti altri scrittori dopo di lui come Pirandello o Svevo, Melville voleva forse suggerire che la letteratura e la vita stessa, per quanto ci si sforzi di dimostrare il contrario, a volte un senso non ce l’hanno davvero. Ma se c’è, dovremmo forse cercarlo? O dovremmo fare come Bartleby è rispondere semplicemente con un “Preferirei di no”?