Per l’appuntamento odierno di Spazio ai Classici non intendo spingermi troppo indietro nel tempo. Ma voglio parlarti di un autore di straordinario talento, forse non troppo conosciuto da noi occidentali.
Sto parlando del russo Anton Cechov, scrittore di racconti e novelle ma anche di testi teatrali. È riconosciuto come uno dei maggiori autori letterari del XIX secolo, sebbene la sua esistenza sia ben lungi dall’essere la classica biografia di un uomo di successo.
Scopriamo di più su questo straordinario scrittore!
Anton Cechov: la biografia
Anton Cechov nasce a Taganrog, una città portuale ai confini sud-occidentali della Russia, nel 1860. Era l’ultimo di cinque fratelli e apparteneva ad una famiglia di umili origini. Il padre era un servo affrancato, la madre una commerciante.
La sua infanzia non fu affatto rosea. Il padre era violento, la sua cittadina natale sporca e malfamata. Anche la sua istruzione non fu delle migliori. In molti suoi racconti compaiono, infatti, caricature di insegnanti e pedagoghi ispirati proprio ai suoi maestri d’infanzia.
Mentre Cechov completava gli studi nella sua città natale, il resto della famiglia si trasferì a Mosca dopo il fallimento della bottega paterna. Furono anni duri per lui, anni in cui, però, maturò l’interesse per la scrittura e il teatro.
Poco più tardi si unì alla famiglia a Mosca per frequentare la facoltà di medicina. In questi anni di studi universitari iniziò a scrivere e pubblicare racconti umoristici e recensioni teatrali. Ciò gli permise di concludere gli studi e laurearsi in medicina nel 1884.
Da quel momento condurrà una doppia vita: medico e letterato, tanto che lo stesso Cechov dirà: « La medicina è la mia moglie legittima, la letteratura è la mia amante».
E alla fine quell’amante ha avuto la meglio. Cechov pubblica le sue prime raccolte di racconti (Le fiabe di Melpomene e Racconti variopinti) dal tono umoristico per poi passare ad una chiave più “noir” e pessimistica con le novelle successive (La camera n° 6, Il monaco nero, Il gabbiano ecc…).
Ben presto però Cechov dovette fare i conti con la malattia: la tubercolosi che lo accompagnerà durante tutto il resto della sua vita, senza tuttavia frenarne l’estro creativo.
Nel 1901 sposa Olga Knipper, giovane attrice di teatro grazie al quale riuscirà a portare a compimento una delle opere teatrali più famose e apprezzate: Il giardino dei ciliegi.
Cechov si spegne poco dopo, nell’anonimato di un albergo in Germania dove si era recato per cercare una cura alla tubercolosi. Se ne andò subito dopo aver bevuto un sorso di champagne e aver detto al suo medico “Sto morendo”. Aveva solo quarantaquattro anni.
Cechov, lo “scrittore del fango”
Cechov è sicuramente uno dei più apprezzati novellieri di metà Ottocento ma all’epoca era piuttosto sottovalutato.
Questo dipende in gran parte delle sue origini: veniva da una famiglia di schiavi affrancati, da un paesino di confine sconosciuto ai più e, nonostante il discreto successo che raggiunse in età adulta, non si considerò mai un vero e proprio scrittore.
E questa dimensione bassa e popolare è quella che, sin da subito, caratterizza i suoi racconti. Contadini, impiegati sottopagati, ubriaconi, pazzi e ragazzini maltrattati…questi sono solo alcuni dei personaggi che affollano le sue storie.
È Cechov il padre assoluto di quei personaggi che, la letteratura chiamerà poi inetti. Gente comune, priva di qualsiasi ambizione o capacità di redenzione, proprio come i protagonisti, per noi forse ben più noti, dei romanzi di Italo Svevo e Pirandello.
Gentucola, insomma, proprio come il titolo di uno dei suoi racconti giovanili che hanno per protagonista Nevyrazimov, il cui nome significa appunto “insignificante”. Ed insignificante lo è davvero: un impiegato fallito costretto a scrivere lettere d’auguri per gente che detesta per pochi spiccioli, desideroso di cambiare vita ma incapace di farlo:
«Sono un buono a nulla! Che il Diavolo mi porti una volta per tutte!» esclama così il povero Nevyrazimov quando si rende conto che non sarebbe in grado neanche di rubare o truffare la gente per arricchirsi. Tutto ciò che riesce a fare è uccidere con piacere un povero scarafaggio trovato nel suo ufficio, un riflesso forse di sé stesso.
Gente abietta e amorale, priva di scrupoli o che non s’accorge nemmeno di far del male agli altri. Come il protagonista di Uno scherzetto che, in gioventù si divertiva a sussurrare di nascosto alla bella Nadja di amarla ogni volta che con lo slittino scivolano giù dalla loro montagnetta. Eppure è il protagonista stesso alla fine del racconto a dichiarare: «Mentre io ora che mi sono fatto più vecchio, non riesco più a capire perché dicessi quelle parole, a che scopo scherzassi…»
L’abilità di Cechov sta nel dipingere queste scene di vita quotidiana con precisione quasi chirurgica, medica, quasi fosse una fotografia della realtà che il lettore può guardare e riguardare fino a che non si accorge di quei piccoli dettagli, di quelle storture e di quel “odore di fango” (espressione coniata da Claudio Piersanti) che, invece, si tende ad evitare nella vita di tutti i giorni.
Questo distacco non vuol però dire che i racconti di Cechov siano banali o semplici, come gli è stato più volte rimproverato. Al contrario ci permette di conoscere meglio i suoi personaggi, di empatizzare con loro mentre sprofondano nel nulla.
È il caso del racconto natalizio intitolato Vanka. L’omonimo protagonista è un ragazzino di poco meno di dieci anni, orfano che lavora come garzone presso un calzolaio. La notte di Natale scrive una lettera a suo nonno, l’unico parente in vita, rimasto al suo villaggio natale.
Nella struggente lettera racconta del padrone violento che non perde occasione per picchiarlo, degli altri attendenti che lo bullizzano e anche del cibo che gli rifilano, scarso e muffito:
Abbi pietà di me, orfano infelice, qui mi massacrano di botte e ho una gran fame, la noia poi è indescrivibile e piango sempre. L’altro giorno il padrone mi ha picchiato sulla testa con una forma da scarpa così forte che sono cascato in terra e a stento mi sono riavuto. La mia vita è rovinata, è peggio di quella di un cane… Salutami ancora Alëna, Egor il guercio, e il cocchiere, e non dare a nessuno il mio organetto. Sono il tuo nipote Ivan Zukov, caro nonnino, prendi il treno e vieni.
Il nonnino però, in verità, è uno scansafatiche e ubriacone che passa le giornate a fumare e a divertirsi con le cameriere della casa in cui lavorava. Per di più quella lettera non arriverà mai a destinazione perché il povero Vanka non allegherà mai l’indirizzo del destinatario.
Vi scriverà soltanto “Per il nonno, al villaggio”, un’espressione di straziante tenerezza che grazie a Cechov è entrato nel russo comune come espressione proverbiale per indicare una perdita di tempo.