La vita ci parla, attimo dopo attimo, attraverso milioni di strumenti, i suoi. Per quanto possiamo girare la testa da un altra parte lottare con i nostri sentimenti, alla fine, nonostante gli sforzi per resisterle, ci fa riflettere, ci da la risposta a tutti i nostri tradimenti. Solo coloro che riescono ad agire correttamente possono riflettersi con fierezza nel proprio specchio.
Il fascino letterario di Azra Kohen sta nella forza dei suoi pensieri. Ne ho avuta conferma leggendo l’ultima frase con la quale la scrittrice chiude l’ultimo capitolo di questa importante trilogia. Rispetto ad una conclamata competenza professionale, da cui non si può prescindere, e spinta a dare un giudizio artistico avrei potuto usare altri termini, più elettivi, e sarebbero stati tutti adeguati, ho preferito definirlo importante o andare oltre, ritenendolo quasi indispensabile, perché la trilogia della Kohen è veramente un testo di alto livello educativo e formativo.
Tutto è concepito perchè si possa dare un senso all’esistenza; il significato dei titoli, la scelta di codificare il loro significato attribuendo loro concetti essenziali per la comprensione dell’essere, il concetto di bellezza individuale del Phi, la ricerca interiore del Chi e la sofferta ma indispensabile scoperta dell’IO attraverso il Pi. Sembra quasi riduttivo doverlo sintetizzare in poche sigle eppure il significato di tutto sta nell’importanza e nel fascino della VITA. La vita come uno specchio, capace di riflettere immagini diverse così come lo sono gli uomini, violenta come con Can Manay, intrappolato nel suo egocentrismo, irriducibile con Duru, incapace di vedere al di là della sua bellezza, generosa con Ozge per il suo coraggio, grata per la semplicità morale, la dedizione e l’intelligenza di Bilge, o autorevole nel placare l’idealismo di Deniz, la tristezza per il fallimento della personalità di Ada. La vita come un viaggio attraverso il quale abbiamo il dovere di guardare oltre le apparenze, confluire verso quel NOI, il valore ultimo che permette all’uomo di sentirsi parte di un unico progetto, ma unico nella sua individualità.
“Tutti noi cominceremo a vivere quando capiremo gli altri senza giudicarli” scrive la Kohen, ma per capire bisogna amare, aprirsi agli altri, senza possedere. Un percorso difficile che la scrittrice psicoterapeuta ha cercato di semplificare raccontando una storia d’amore difficile, complicata come quella di Can e Duru, un tentativo che, a tratti, è risultato ostico per la complessità dei concetti. Tutti i personaggi della storia sono messi davanti alle prove della vita, coinvolti nella costante ricerca dell’autoconsapevolezza “quelle porte pesanti e di ferro che per Can Manay non bisogna aprire mai perché schiacciano, distruggono il mondo di sciocchezze a cui si finge di dare valore“. Ancora una volta è la vita che costringe in un angolo, spinge a riflettere sul valore che diamo alle cose e alle persone, ti chiede se sei capace di credere in te stesso fino in fondo, accettando di crescere anche attraverso la sofferenza se questa si rende necessaria.
Lo sa bene Deniz, quando, dopo il dolore per la perdita di Duru, ritorna a vivere per amore della sua musica, lo comprende Ozge quando rinuncia all’effimero per amore verso gli altri, lo sa Bilge quando per amore dovrà scegliere, e Goksel quando l’amore lo spinge ad agire. Per ognuno di loro è l’amore che regola e insegna, costruisce e distrugge, da senso all’esistenza, risponde alla domanda più difficile.
Perché l’uomo nasce? Perché esiste? La risposta è diversa per ognuno. La tua non andrà bene per me e la mia non sarà giusta per te. Noi siamo qui riuniti per fare ciò che ci riesce meglio, perché è per questo che siamo stati creati. Siamo qui per ispirare gli altri Salveremo il mondo facendo solo ciò che sappiamo fare”, dice Deniz ai suoi musicisti. “L’uomo è stato creato per interrogarsi e interrogandosi svilupparsi, può sopravvivere ma per vivere ha bisogno di capire andare oltre il proprio io, scoprire il proprio potenziale e realizzarlo”
La ricerca del potenziale, la parola magica su cui la Kohen ha impostato la sua trilogia, il seme che una volta venuto alla luce cresce e si esprime dandoci la possibilità di scegliere, di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è. La trilogia mi ha colpita molto, è indubbio, mi è piaciuta l’idea di usare i personaggi come vettori della sua verità, ho apprezzato la profondità del pensiero e la convinzione nell’esprimerlo, il linguaggio fortemente descrittivo mi ha spinto alla riflessione personale, costretta a soffermarmi su concetti spesso non facile, motivo per quale ritengo che il testo abbia necessità di essere assimilato e interpretato nella maniera adeguata.
Chissà cosa mi direbbe Azra Kohen se l’avessi di fronte, probabilmente sfodererebbe uno dei suoi sorrisi migliori chiedendomi a suo modo “Ebbene, se hai letto attentamente i miei romanzi, ora rifletti, cosa vuoi dalla vita? Cosa vuoi essere davvero? Fermati e lo saprai, perché adesso tocca a te. La vita è una sfida o diventi te stessa o non riesci ad esserlo. Nella semplicità c’è serenità, nel lavoro c’è fede, che produrre è un servizio, la vera forza sta nel trovare noi stessi. Questa sfide la vince chi analizza ciò che gli accade, quando lo capiamo diventiamo NOI!”
Le risponderei che il mio viaggio non è ancora finito, che il mio Phi mi ha messa alla prova, che come Ozge ho cercato il Chi, a volte, lottando con me stessa e con fatica, ho difeso, come ho potuto, ciò in cui ho creduto, e in cui credo ancora, che raggiungere il mio Pi non è stato facile come non è facile ogni giorno guardarsi allo specchio, con la speranza di vedere riflessa la parte migliore di me. L’equilibrio è importante, forse raggiungerlo più difficile ma ha ragione, la serenità risiede nelle cose semplici, nelle piccole cose, in un abbraccio, in uno sguardo di complicità, anche e soprattutto se il pensiero diverge, e per questo vado avanti, come dice lei, senza paura, anche perché cara Signora Kohen, di una cosa sono certa “finché c’è vita c’è speranza”!