Leggere Il segreto della fotografa francese, di Natasha Lester ed edito da Newton Compton, non è stato semplice, è un libro che ho letto alla medesima velocità che utilizza un bradipo per compiere un breve tragitto e non per le quattrocentoquarantotto pagine in sé; eppure io, come ogni lettore accanito che si rispetti, appartengo a quella cerchia di persone che del “più leggi e più vorresti leggere” ne fanno quasi una filosofia di vita: sei alla guida della tua auto e pensi a cosa accadrà alla tua eroina che hai lasciato, verosimilmente, dinanzi ad una scelta amletica, ti fermi così senza un motivo ben preciso a rimuginare su come si evolverà quella scena clou… In realtà quello che mi è accaduto con il romanzo in questione è proprio questo: volevo conoscere, volevo sapere e allora, caro amico lettore, immagino che verrà spontaneo chiederti come mai io abbia sofferto questa lentezza nella lettura. Presto detto: l’argomento trattato, la guerra vissuta, gli orrori patiti, le donne già bistrattate e trattate a mo’ di oggetto anche da coloro che avrebbero dovuto essere loro alleati.
Siamo negli anni ’40, esattamente il periodo che va dal 1942 al 1946, la Seconda Guerra Mondiale porta orrore, sgomento, disperazione e distruzione; le città vengono rase al suolo, la gente muore di continuo, i soldati combattono fino allo stremo delle forze pregando Dio perché tornino vivi e vegeti dalle loro famiglie, il clima è ostile, e lo diventa ancor di più quando una giovane, giovanissima, donna – Jessica May -, modella di professione, per un evento che vedrà incrinare rovinosamente la sua fulgida carriera, deciderà di sfidare il rigido e inflessibile sistema di quegli anni, decidendo di diventare fotoreporter di guerra, anzi della guerra, per documentare attraverso le sue foto e i suoi articoli tutto quello che la gente altrimenti non conoscerebbe: dimostrare la scia di afflizione che ogni battaglia lascia al proprio passaggio non è facile né da vedere, né da far conoscere.
Dal punto di vista tecnico, il libro si suddivide in tredici parti, ciascuna delle quali, a sua volta, è composta da vari capitoli, il cui numero non è uguale per tutte; i capitoli, lunghi solo qualche pagina, sono in totale ben trentasette. Il romanzo viene narrato in terza persona, e l’autrice impiega una precisione certosina nel descrivere i luoghi e le scene, ciò è assolutamente comprensibile, considerato l’imponente periodo del quale si narra, e va da sé che le descrizioni assumono un ruolo preminente; difatti, grazie a questa accuratezza nelle rappresentazioni è stato per me possibile immaginare la scena che prendeva forma e vita ai miei occhi di lettrice.
Lo spazio temporale narrato comprende gli anni, come detto poc’anzi, che vanno dal 1942 al 1946, ma viene trattato anche di un periodo relativamente recente, il 2004; strettamente legati alla Seconda Guerra Mondiale sono anche i luoghi indicati nel libro: si parte da New-York, passando per l’Inghilterra, per poi arrivare in Italia e in Francia, finanche l’Australia viene citata, e solo leggendo il libro comprenderai il motivo della citazione di quest’ultimo continente.
Molti sono i personaggi che prendono vita in questa storia, e benché si presti maggiore attenzione per quelli, per così dire, principali, in definitiva possiamo dire che tutti i soggetti assumono ruoli e contorni ben tracciati: le infermiere, i soldati semplici, il popolo, insomma, ad ognuno di loro viene prestata la giusta attenzione, compito che si è rivelato difficoltoso, riuscire a dosare la giusta attenzione ai personaggi, per stessa ammissione dell’autrice.
Il libro non presenta refusi, il linguaggio è ben strutturato, senza essere né troppo semplice né troppo complicato; il romanzo parte dalla Seconda Guerra Mondiale, successivamente compiamo un salto temporale in avanti ritrovandoci nel 2004 e così accade per tutta la storia: si alternano i capitoli nei quali si parla del passato, e capitoli relativi a tempi più recenti, per tale ragione sono presenti numerose digressioni. Insomma, tutto il libro è come un enorme puzzle dove man mano che si procede nella lettura ogni tassello trova la giusta collocazione. L’ultimo pezzo, come ogni puzzle che si rispetti, è quello più importante, quello che ti svelerà tutto, e ti lascerà di stucco, credimi.
Ho molto apprezzato l’uso di similitudini da parte dell’autrice per dare maggiore risalto alla scena descritta, come ad esempio «Si fissarono negli occhi, il rumore delle granate che cadevano in lontananza e che sembravano i singhiozzi trattenuti di una persona che cercava di non piangere…»
Che emozioni mi ha suscitato il libro? Un tumulto. Ecco. Non ho riso, questo è assodato, ma mi sono adirata, sono stata assalita dall’angoscia, una malcelata tristezza si è spesso tramutata in copiose lacrime. A conti fatti, cosa ne sappiamo noi della guerra? Noi che abbiamo avuto la fortuna di non assistervi mai, noi che dobbiamo sempre sperare di non vivere mai la disperazione letta negli occhi dei bambini, la sottomissione delle donne, la terra e la neve che si colorano di rosso, le città che perdono la loro anima, gli occhi che mai dimenticheranno, anche a distanza di anni, ciò che hanno vissuto.
Questo romanzo pone in rilievo la forza – non solo d’animo – delle donne e di come le stesse abbiano saputo imporsi in un’epoca in cui «I Pulitzer vanno assegnati soltanto agli uomini.», dove le donne, definite il sesso debole, vanno tenute a debita distanza dalla guerra e dove, per le stesse, diventa proibitivo, effettuare un qualsiasi spostamento senza preavviso… ma, paradossalmente, le stesse donne che devono essere tenute lontane dai bombardamenti, possono essere usate a piacimento, senza ritegno, e contro la loro volontà, dai soldati, ove chi sa, finge di non sapere che ciò accada, dove le barbarie vengono insabbiate a beneficio del sesso, per così dire, forte.
Va da sé che il personaggio che ho maggiormente apprezzato è proprio Jessica May: una donna caparbia, una donna che ha saputo tenere la testa alta e usare la lingua come fosse una spada, una donna che non si è mai scomposta dinnanzi all’orrore sbattutole in faccia dalla guerra, che ha saputo infondere coraggio, catturando, attraverso le sue fotografie, quegli scatti inequivocabili, scatti ai quali mancava solo la parola. Troverai anche altre donne nel romanzo che, al pari di Jessica, hanno mostrato indipendenza, forza, coraggio e voglia di riscatto.
«All’improvviso comparvero le donne. O quelle che un tempo erano state delle donne. Quelle creature erano state spinte oltre il limite dell’umano. Cadaveriche, gattonavano o non facevano nemmeno quello; trascinavano i loro corpi sul terreno con le ultime forze rimaste nelle braccia. Erano solo occhi enormi, ossa, narici e bocche spalancate.»
L’unico appunto che ho da fare è che forse io, ma ovviamente il mio è puramente un parere, avrei reso l’intreccio della storia meno complicato: i numerosi personaggi, tutti portatori della loro personale storia di vita, richiedono già una grande concentrazione, pertanto rendere l’intrigo aggrovigliato come un cespuglio di rovi non facilita l’attenzione; sulla conclusione non voglio – e non posso – pronunciarmi, perché sia che esprimessi un parere negativo o positivo, potrei dirti troppo; ti do, a questo proposito, due suggerimenti: leggi Il segreto della fotografa francese perché è un romanzo che va letto per la storia che racchiude e per bagaglio personale di vita, il secondo consiglio che ti lascio è di leggere, altresì, le note dell’autrice; leggendo queste ultime ho appreso aspetti del romanzo che magari non avrei mai conosciuto e concordo con lei quando afferma che è stato difficile scrivere questo libro: ma se per un verso è stato diffile, per altro verso è stato geniale perché ci ha regalato una storia forte ma delicata, profonda e sentita, ricca di sentimento.
«Il tema della liberazione non è esornativo. Ci sono gli allegri scarabocchi di vino e canzoni. C’è il bellissimo colore della libertà, ma ci sono anche rovina e distruzione. Ci sono problemi ed errori, speranze disattese e promesse infrante.» (Cit. Lee Miller)