Siamo delfini.
Giochiamo con la sorte.
Sai che c’è.
Non ce ne frega niente.
Vivremo sempre.
Noi sorrideremo sempre.
Siamo delfini.
Sono le parole del testo di una canzone di Modugno che prendo in prestito per raccontarti la recensione del libro
Come un delfino – di Gianluca Pirozzi
Un viaggio nelle emozioni, nei sentimenti, tra difficoltà, complicate dinamiche familiari e fugaci momenti di felicità. Le riflessioni che sorgono leggendolo sono tante. Prima fra tutte la voglia incontrollata di… chiuderlo dopo le prime dieci pagine e sbatterlo al muro, eufemisticamente parlando, perché così facendo avrei distrutto il mio cellulare, fedele compagno di letture.
Non immagini quante volte ho ripreso la lettura, sempre dalla prima pagina e, puntualmente la interrompevo. Poi mi sono fatta coraggio, mi sono detta che il prosieguo sarebbe stato più leggero, o perlomeno, più coinvolgente. Non è stato così, ma sono comunque arrivata alla fine, e poi ho capito il perché.
Non è un libro che ti prende, assolutamente no, devi leggerlo adagio, magari ritornando su alcuni punti che per quanto scritti bene e molto dettagliatamente, sono poveri di emozione, asettici; non c’è quella tensione emotiva che ti aspetti nella narrazione degli aspetti della vita di Vanni, il protagonista.
La forma utilizzata è un continuo pasticciare con discorsi diretti privi di virgolette, talvolta mancante di punteggiatura, a dimostrazione della volontà di dimostrare “distanza” nel narrare la sua storia. Per non parlare poi di frasi riportate solo in francese, senza alcuna traduzione, che rallenta di molto la lettura per chi non è avvezzo ad altre lingue.
Quindi, per riprendere le parole della canzone, Come un delfino ripercorre la vita di Giovanni detto Vanni, un ragazzo nato negli anni Sessanta, una vita attraversata in apnea, alla perenne ricerca di uno spiraglio di ossigeno che possa restituire senso e compiutezza ai dolori che lo hanno attraversato, sempre con la speranza di raggiungere piccole felicità, attimi in cui la voglia di sentirsi amato possa essere colmato.
In Come un delfino la storia è divisa in tre parti.
La prima, quando Vanni è bambino e deve fare i conti con il padre, professore universitario e scultore di fama, assente ma aggressivo nei confronti di tutta la famiglia, e con una madre ottima traduttrice ma assertiva e sottomessa, con la nonna Jole, una figura molto importante nella sua vita, e con il fratellino Tommaso detto Maso con cui ha un forte attaccamento e grazie al quale riesce ad arginare l’irascibilità del padre, ed infine la sorellina Martina.
La seconda parte quando decide di “staccarsi” dalla famiglia in seguito ad un evento che lo segna molto, un percorso personale molto travagliato per accettare la propria famiglia e se stesso.
Ed infine, la terza parte quando prenderà coscienza della sua omosessualità e di tutto quello che gli incontri che seguiranno, segneranno la sua vita di adulto, compreso un grande amore ricambiato e la volontà di intraprendere una maternità surrogata per diventare padre.
Il tutto è corredato di descrizioni molto particolareggiate di ambienti, strade, atmosfere via via vissute a Roma, Bruxelles o Skopje che, però, rimangono fini a sé stesse. Tutto questo ha creato la mancanza di freschezza e autenticità. E i dialoghi lunghi dimostrano un limite insormontabile, non essere in grado di fornire ai personaggi la capacità di espressione con una semplice battuta, un semplice sguardo o una facile battuta.
Se è vero, come scrive l’autore, che “La felicità diviene così un traguardo, raggiungibile solo accettando il proprio dolore.”, bisognerà agire come il nostro Vanni:
“…E, nuovamente in quello spazio, ti ritrovi da solo a tentare di decifrare il tuo cuore. Il ricordo della visione appena avvenuta si mescola così a una finta memoria, al possibile ricordo di una magia che viene da lontano.
Provi a convincerti che hai già provato quello stupore, ti racconti che è simile a quello avvertito tanti anni prima quando un’illustrazione colorata t’appariva voltando la pagina di un nuovo libro. Ma, poi, dopo un simile stordimento, ti convinci che non hai altra consolazione se non quella d’aggrapparti nuovamente alla leva del cambio, a quel senso di opprimente realtà che il riprendere la marcia è capace di infonderti. E prosegui. Di nuovo solo. Di nuovo sulla lunga strada verso casa. La tua casa.”
Ehi capitano mio
Siamo accerchiati
Da cento barche
Arpioni ami e cento reti
Fuggi via tu che sei piu’ veloce
Mi hanno solo ferito
Ma sopravvivero’
Sai che c’e’
Non ce ne frega niente
La vita e’, è morire cento volte
Siamo delfini
Giochiamo con la sorte
Ho terminato come ho iniziato, con altre parole della canzone di Modugno perché in Come un delfino l’autore avverte la necessità di lottare per conquistare uno spazio vitale in cui godere di luce propria, e lo spostamento, il viaggio sono la scelta necessaria e che può spalancare le porte alla scoperta della bellezza della vita.