Oggi 8 Marzo, quando l’altra metà del cielo racconta la sua storia di riscatto, un omaggio alla poesia al femminile, con una giovane promessa: Elvira Sastre.
La poesia quando è donna, si veste di sensibilità diversa, di passionalità a volte accesa, altre delicata, di canto e incanto e di diverso sentire… non volermene se tu che stai leggendo sei un uomo, difendo la categoria e mi pare giusto! Sono un po’ di parte oggi e da donna ribadisco che una società che si definisce evoluta, non dovrebbe avere bisogno di ricordare il rispetto per una bella fetta di se stessa, con date fisse. La taglio qua, però, con questo discorso perchè esulerebbe dalla nostra rubrica e quindi rientro nei ranghi e discutiamo di poesia: consentimi però, oggi 8 marzo, di argomentare di poesia al femminile. Ti presento, se non la conosci già, una giovane promessa della poesia contemporanea, Elvira Sastre, con la sua ultima pubblicazione, La solitudine di un corpo abituato alla ferita, edizioni Garzanti.
Elvira Sastre, nata a Segovia in Spagna, nel 1992, è considerata un vero e proprio fenomeno letterario. A soli quindici anni, apre un suo blog dove inizia a pubblicare le prime poesie. Trasferitasi a Madrid, viene a contatto con varie personalità del mondo poetico spagnolo e pubblica La soledad de un cuerpo acostumbrado a la herida: “entra in classifica e vive di poesia. Riempie i teatri di gente che vuole ascoltarla leggere” (dal Corriere della sera).
La solitudine di un corpo abituato alla ferita, di Elvira Sastre, con traduzione di Matteo Lefèvre, edizioni Garzanti, racconta un amore finito, con tutto il carico di dolore e senso di abbandono che ne consegue. Un amore che finisce è un capitolo della vita che si chiude e quando si subisce la fine, ha il sapore amaro dell’abbandono, del rifiuto, è quasi un lutto e in quanto tale, ha bisogno di essere elaborato. Chiunque abbia sofferto pene d’amore, sa bene che non serve “distrarsi o bere da ubriacarsi”, come recita il testo di una famosa canzone: è necessario calarsi nel dolore, toccare e raschiare il fondo nero del vuoto che l’altro/a lascia e poi cercare un appiglio, un gancio, un motivo per risalire e ritrovare la gioia di vivere e ricominciare. Leggendo il libro ho avuto la sensazione che l’autrice abbia proprio compiuto questo percorso.
Le sessanta pagine di La solitudine di un corpo abituato alla ferita, sono pagine cariche a tratti di rabbia, a tratti di deluse aspettative o di tristezza che annega nei ricordi, pagine espresse con un linguaggio carico di fierezza che mi ha ricordato, in un certo qual modo, tutta la passionalità hidalga, per un amore non più corrisposto e quindi percepito come inutile: “So che una volta ti bastavo/ e occupavo tutti i tuoi paesaggi./ So che mi hai tirato fuori dal buco e mi/ hai chiamato luce/ -con queste stesse mani/ con cui oggi mi respingi-/ [… ] So che non sarò capace di dirti niente/ perchè mi fa male questa voce/ che non ti chiama più allo stesso modo (da Il volo che ha vinto il vento).
O ancora in un altro componimento: Sono in frantumi e non lo nascondo./ So che passerà il tempo prima che tu possa abbracciarmi/ senza che ti si conficchino nel corpo i miei pezzi./
Le immagini delle ferite del cuore si trasferiscono visibilmente nel corpo e si rincorrono in molte delle poesie di questa silloge, donando al lettore la viva rappresentazione della sofferenza: è come se all’autrice fossero state inferte vere e proprie ferite fisiche, da qui si capisce bene la scelta del titolo che potrebbe sembrare un po’ masochista, visto il continuo ricorso al dolore fisico in cui l’autrice sembra indugiare, come quasi se ne compiacesse.
Al di là del filo conduttore della silloge, monotematico in verità e leggermente ripetitivo, i versi colpiscono per il linguaggio palpitante, ribelle, diretto e quasi furente, spietato: attraverso le parole che Elvira Sastre usa, sembra di poter cogliere le emozioni che muovono la penna e quelle che si agitano nell’anima: il dolore dell’abbandono, della delusione e della solitudine; lo strazio del vuoto lasciato e nello stesso tempo la ricerca di uno scudo, di una difesa che lenisca la sofferenza, la consapevolezza di dover lanciare uno sguardo oltre il dolore e di dover trovare una cura per superarlo.
La solitudine di un corpo abituato alla ferita, mostra tutta l’irruenza della giovane età della sua autrice, a venticinque anni le passioni si vivono intensamente, con anima e sangue, non sono mitigate dalle esperienze e dalle consapevolezze che il passare degli anni regalano ad ognuno, sono impulsive, sanguigne e quasi naif (mi si passi il termine).
Al di là dei facili entusiasmi, per la novità, che un’autrice venticinquenne di carattere può attirare, (è infatti considerata una vera e propria promessa della poesia) personalmente ritengo che, in effetti, Elvira Sastre, abbia molta legna da bruciare sul fuoco sacro della musa poetica ma è legna ancora verde, è legna che ha bisogno di stagionare per poter dare la giusta fiamma al fuoco della poesia.
La poesia è un’arte, che va coltivata, limata, affinata e depurata per poter raggiungere quei toni di liricità, caratteristici dei grandi: Elvira Sastre ha ancora tanta strada davanti, camminerà spedita, questo è sicuro.
A lei, poetessa giovane (che si farà), a te che leggi (donna o uomo, non importa) e a me stessa, in questo giorno speciale, dedico i versi di una grande poetessa italiana che ha conosciuto il dolore in tutte le sue forme e ne ha fatto liricità superlativa: Alda Merini:
sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride.
sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
il tuo sorriso sarà luce per il tuo cammino
faro per i naviganti sperduti.
il tuo sorriso sarà:
un bacio di mamma
un battito d’ali
un raggio di sole per tutti.
Hai capito cara Elvira Sastre?
A te che leggi e alla tua pazienza, rinnovo l’appuntamento al prossimo venerdì, a ri-leggerci.
Un’altra raccolta di poesie da scoprire 🙂
Sicuramente…:-)