Giorgos Seferis, il grande poeta greco
Caro iCrewer eccomi oggi a parlarti in questa nostra rubrica di un illustre personaggio del secolo scorso.
Uno degli aspetti intriganti di queste nostre rubriche è il fatto che sono rivolte sì, all’attenzione dei nostri cari amici lettori, ma rappresentano per noi redattori occasioni uniche in cui venire a conoscenza di autori, personaggi e opere che altrimenti non avremmo approfondito o scoperto. Io poi – e non me ne vogliano gli appassionati di poesia comprese le mie stimate colleghe – non sono molto avvezza a questo genere di arte letteraria, ma non appena ho letto qualche verso scritto da Seferis me ne sono letteralmente innamorata.
Nato nel 1900 a Smirne, è noto nel mondo principalmente per il valore della sua poesia, è spesso ricordato come “L’Odisseo del Novecento” ed è uno dei poeti greci più conosciuti al mondo insieme a Konstantinos Kavafis, Odysseas Elitis e Ghiannis Ritsos, ma è stato anche saggista e diplomatico. Ha vinto il Premio Nobel per la Letteratura nel 1963.
Tra le innumerevoli opere, cito quello che è il suo unico romanzo, reperibile tradotto in italiano da alcuni anni:
Sei notti sull’Acropoli: “Sei notti sull’Acropoli” (“Exi nichtes stin Akropoli”), proposto in questo volume per la prima volta in versione italiana, è l’unico romanzo del poeta Ghiorgos Seferis. Concepito negli anni giovanili, ma ripreso e completato dall’autore in età matura, “Sei notti sull’Acropoli” si può considerare un romanzo di formazione sui generis, rivisitato ed arricchito alla luce delle diverse esperienze culturali dell’autore in ambito greco ed europeo; caratterizzato, dal punto di vista formale, da una contaminatio generum dalla narrativa al diario alla prosa lirica. Caratteristica fondamentale dell’opera è uno scambio ininterrotto di ruoli tra ombre e persone vive, come pure il continuo passaggio dal registro della realtà a quello del sogno e della fantasticheria.“
La trama di questo libro è in realtà una storia basata sui diari personali scritti da Seferis tra il 1925 e il 1928, e che solo 30 anni più tardi vennero ritrovati casualmente da lui stesso; ciò nonostante per arrivare ad una vera pubblicazione si dovrà attendere fino alla seconda metà degli anni ’70, anno in cui la vedova del poeta decide di metterli a disposizione di una casa editrice e di intitolare l’opera Sei notti sull’Acropoli.
Veniamo alla sua poesia: troviamo in italiano una pubblicazione del 2017, curata da Nicola Crocetti per la sua casa editrice: Le Poesie.
Voglio riportarti, caro lettore, una delle poesie che mi ha commosso di più, forse complice l’atmosfera di questo lungo mese che stiamo trascorrendo in quarantena; si intitola
Ultima Tappa
Rare le notti di luna che mi piacevano.
L’alfabeto degli astri che tu sillabi,
se la fatica te lo consentirà, al termine del giorno,
svolgendo altri pensieri, altre speranze
puoi leggerlo più chiaro.
Ora che siedo in ozio calcolando,
rare lune ha serbato la memoria:
isole, colore d’una Madonna addolorata,
lente a luna calante,
o chiari di luna in città del Settentrione
che talora stendevano
sopra turbate vie e fiumi e membra d’uomini
un torpore pesante.
Ma ieri sera qui, in quest’ultimo scalo ove aspettiamo
che l’ora del ritorno albeggi,
come un antico debito, un denaro rimasto
nel forziere d’un avaro a lungo,
al momento del saldo s’odono le monete
scrosciare sulla tavola,
in questo villaggio tirrenico, di là
dal mare di Salerno
di là dai porti del ritorno, all’apice
d’una bora d’autunno, la luna
ha varcato le nuvole, e le case
si sono fatte, sull’opposto pendio, di smalto.
E’ un filo del pensiero, un modo
di cominciare
a dire cose che mal si confessano,
quando non reggi più,
ad un amico fuggito di nascosto
con notizie di casa e dei compagni,
e bisogna far presto, aprire il cuore
prima che la migrazione lo degeneri.
Veniamo dall’Arabia, dall’Egitto
e dalla Palestina e dalla Siria,
lo staterello della Commagene
spento come una piccola lucerna
spesso ci torna in mente,
e metropoli che vissero millenni
e decaddero a pascolo di capre,
a terreni di canne da zucchero e granturco.
Veniamo dalla sabbia del deserto
e dai mari di Pròteo,
anime raggrinzite da pubblici peccati,
ciascuno col suo rango come l’uccello in gabbia.
E’ l’autunno piovoso in questo buco
a sdegnare la piaga di ciascuno
– per usare altri termini: la nemesi, la mòira,
forse solo abitudini cattive, frode, inganno
o l’egoismo
di speculare sopra il sangue altrui.
Facilmente si logora alla guerra
l’uomo: ché l’uomo è molle come un covone d’erba:
labbra e dita che anelano smaniate un petto bianco
occhi che si socchiudono al barbaglio del giorno
e piedi pronti a correre -stremati-
al più piccolo fischio del guadagno.
L’uomo è molle e assettato come l’erba, insaziato
come l’erba, i suoi nervi radici protese.
Se viene mietitura,
c’è chi esorcizza il demone gridando
c’è chi s’invischia nei suoi beni e c’è chi fa retorica.
Ma gli esorcismi, i beni, la retorica
a che servono, se sono lungi i vivi?
O forse l’uomo è un’altra cosa? O forse è questo
che trasmette la vita?
Tempo di seminare, tempo di raccogliere.
Sempre, sempre le stesse cose, dirai, compagno.
Ma il pensiero del profugo, il pensiero
del prigioniero, il pensiero
dell’uomo divenuto anch’egli merce,
prova a mutarlo, non puoi.
Forse vorrebbe persino
restare re degli antropofagi
spendendo forze che nessuno acquista,
andare a spasso in campi d’agapanti
a sentire il tam-tam sotto la pianta di bambù,
mentre muovono a ballo i cortigiani
con maschere mostruose.
Ma il paese che stroncano con la scure, che bruciano
come il pino -lo vedi
o da dentro il vagone buio, senz’acqua, i vetri rotti
per notti e notti,
o nella nave infuocata che andrà a picco
secondo le statistiche-
Queste cose si sono radicate nella mente e non mutano,
queste cose germogliano immagini eguali a quelle piante
che gettano i virgulti nelle foreste vergini
e i virgulti si radicano al suolo e rigermogliano
varcando leghe e leghe:
la nostra mente, una foresta vergine
d’amici assassinati.
E se ti parlo in chiave di parabola, è solo
perchè l’ascolto n’è più dolce: del brivido
d’orrore non si parla perch’è vivo
e perch’è muto e avanza:
stilla di giorno, stilla nel sonno
memore e dolente angoscia.
Ma parliamo d’eroi, parliamo, ora, d’eroi: Michele
che con le piaghe aperte fuggì dall’ospedale
parlava forse degli eroi, quando, la notte
che trascinava il piede per la città oscurata,
mettendo il dito sulla nostra pena
urlava: “Nella tenebra
andiamo, nella tenebra avanziamo…”
Nella tenebra avanzano gli eroi.
Rare le notti di luna che mi piacciono.
Cava de’Tirreni, 5 ottobre 1944