Bentornato caro Icrewer,
per l’appuntamento odierno di Spazio ai Classici ho deciso di tornare a parlare di un autore ormai conosciutissimo: Primo Levi.
Scrittore di straordinario talento, la sua carriera da letterato è legata ad opere meravigliose come Se questo è un uomo e La tregua. Oggi però voglio parlarti di un’opera meno conosciuta ma altrettanto intensa e forse, persino più attuale: I sommersi e i salvati.
Anche quest’opera, l’ultima che Primo Levi ha scritto, è una testimonianza ma anche un invito a riflettere sui rapporti umani ed in particolare tra carnefici e deportati.
Scopriamo insieme qualcosa in più su quest’affascinante opera!
I sommersi e i salvati: la zona grigia
In Se questo è un uomo Primo Levi racconta la propria esperienza nei campi di concentramento. I sommersi e i salvati, invece, può considerarsi una sorta di “sequel”. Pur continuando a raccontare delle atrocità dei campi di concentramento, il punto di vista si sposta “all’esterno”. Questo libro, infatti, viene pubblicato nel 1986, un anno prima della morte di Levi e ben quarant’anni dopo Se questo è un uomo.
Il libro è suddiviso in otto capitoli in cui Primo Levi analizza non più soltanto la sua esperienza diretta nei campi di concentramento ma ciò che di quell’esperienza rimane. Levi, infatti, si era accorto che la memoria di quegli anni indicibili stava lentamente sbiadendo. Parlare nelle scuole, ai giovani, era per i sopravvissuti sempre più difficili perché i loro racconti apparivano sempre più anacronistici, relegati ad un mondo sostanzialmente inesistente perché troppo lontano dal presente.
Non aiutava certo, il proliferare di storici negazionisti che mettevano in dubbio l’esistenza dei lager di sterminio o tentavano persino di giustificarle ricorrendo ad argomentazioni sempre più assurde. L’obbiettivo di Levi era, dunque, quello di restituire realtà a questa vicenda, dimostrando ai lettori quanto questa potesse essere ancora tremendamente attuale e vicina ai giorni nostri.
Proprio per questo la parte più interessante de I sommersi e i salvati è il capitolo intitolato “Zona grigia”.
In questa parte Levi analizza i rapporti che si creavano tra carcerieri e prigionieri. Per Levi già sul piano dialettico c’è un errore molto grave. Nei lager nazisti non c’era una distinzione così netta: le guardie tedesche, spietate e disumane da una parte, e i prigionieri, succubi e vittime dall’altra. Esisteva una grande zona grigia che comprendeva tutti coloro che si trovavano nel mezzo: ebrei che collaboravano con i tedeschi, prigionieri con privilegi ma anche guardie caritatevoli e tedeschi che cercavano d’aiutare gli altri prigionieri.
Insomma proprio come in qualsiasi società, i lager nazisti erano popolati da una varietà di tipi umani che Levi non esita ad indagare per rispondere alle domande che lo tormentano: Quali sono le strutture gerarchiche di un sistema autoritario? Quali rapporti si creano tra oppressori e oppressi? Chi sono gli esseri che abitano la “zona grigia” della collaborazione? Come si costruisce un mostro? Era possibile capire dall’interno la logica della macchina dello sterminio? Era possibile ribellarsi ad essa?
La vergona dei giusti e la violenza inutile
L’obbiettivo di Hitler e dei tedeschi era lo sterminio ma ciò che accadeva nei lager andava ben al di là della volontà di eliminare intere classi sociali.
La domanda chiave di I sommersi e i salvati è quindi: cosa provavano i carnefici?
La risposta non è semplice e, a distanza di tutto questo tempo, l’autore continua a non comprendere il motivo di tanta “violenza inutile” all’interno dei campi di concentramento. I prigionieri subivano costanti umiliazioni, erano spesso costretti a denudarsi, oltre a subire percosse e violenze di ogni genere.
Secondo molti di coloro che erano sopravvissuti la ragione di questa violenza inutile era che la maggior parte dei deportati non conosceva il tedesco. Il tedesco era l’unica lingua ammissibile, l’unica pura, quasi sacra e per questo la semplice presenza di gente che non era in grado di parlarla rappresentava un insulto. Levi, infatti, chiama “interprete” il bastone che le guardie usavano per picchiarli.
Ma c’era anche molto di più, evidentemente. Le guardie erano solite ripetere che comunque sarebbero andate le cose, i tedeschi, avrebbero vinto. I prigionieri erano destinati a morire ma se anche qualcuno di loro fosse riuscito a sopravvivere, il “marchio dell’infamia” li avrebbe sempre seguiti. Nessuno, infatti, avrebbe mai potuto credere alle loro storie perché tanta violenza era inconcepibile. Molti dei sopravvissuti, come difatti accadde, sarebbero stati perseguitati dalla “vergogna dei giusti”.
Tale esperienza li avrebbe tormentati in eterno mentre il mondo intorno non avrebbe mai saputo o, peggio ancora, avrebbe pian piano dimenticato le colpe dei loro aguzzini.
E i carnefici, dunque, cosa provavano? Qualcuno di loro ha mai provato quella “vergogna dei giusti” che tormenta i sopravvissuti? Forse qualcuno di loro sì, ma la maggior parte delle guardie messe a processo negli anni successivi la fine della guerra si difendevano dicendo di essersi limitati a obbedire agli ordini dall’alto e ad eseguire il proprio dovere. Ma c’è un dovere, secondo Levi, che va ben al di là di qualunque ordine: il rispetto della dignità di un uomo, anche quella di un prigioniero o di un condannato a morte.
I sommersi e i salvati lancia un messaggio di straordinaria attualità che si fa sentire ancora oggi. Quando si esercita una violenza di questo tipo, quando si priva un uomo della propria dignità, la responsabilità è sempre personale e rimane incancellabile.
La storia si ripete, a differenza di quanto credevano i suoi contemporanei, convinti che quella di Hitler fosse stata una semplice e remota “fase della storia”. Nella conclusione de I sommersi e i salvati, testamento spirituale dell’autore, Primo Levi conduce un’analisi straordinariamente lucida e, per certi versi, profetica.
Ti lascio quindi, caro lettore, proprio con le sue parole che, molto meglio delle mie, possono descrivere la triste realtà di un mondo che fatica a cambiare:
È avvenuto, quindi può accadere di nuovo. […] La violenza, «utile» o «inutile», è sotto i nostri occhi: serpeggia, in episodi saltuari e privati, o come illegalità di stato, in entrambi quelli che si sogliono chiamare il primo ed il secondo mondo, vale a dire nelle democrazie parlamentari e nei paesi dell’area comunista. Nel terzo mondo è endemica od epidemica. Attende solo il nuovo istrione (non mancano i candidati) che la organizzi, la legalizzi, la dichiari necessaria e dovuta e infetti il mondo.