“Un grandissimo, ha inventato il Processo alla tappa”.
Così ha commentato, stamattina, mio padre, la notizia della scomparsa di Sergio Zavoli, uno dei più grandi e più influenti nomi del giornalismo italiano, scomparso all’età di 96 anni lasciando un grandissimo senso di perdita e di vuoto che si respira in ogni notiziario e in ogni articolo a lui dedicato dalle più importanti, e non solo, testate.
Senso di vuoto e di dispiacere che con invidia ho riconosciuto nelle parole di mio padre, seduto sul divano davanti a me, mentre, come detto, il telegiornale annunciava la grave perdita per tutta la cultura italiana. Perché Sergio Zavoli, mi ha poi spiegato mio padre, è quello che negli anni sessanta ha avuto la brillante idea di inventare il Processo alla tappa al Giro D’Italia, è stato il primo a pensare che la corsa andava raccontata attraverso le voci dei protagonisti che chilometro dopo chilometro si contendevano la maglia rosa. Quello che ancora oggi è un appuntamento televisivo fisso legato al Giro, è frutto dell’intuizione brillante di questo grande giornalista.
E così, incuriosito e desideroso di saperne di più su questo personaggio, ho passato le ultime ore di oggi ad ascoltare notiziari, leggere biografie sintetiche, e, sopratutto a scoprirmi affascinato e colpito dalle tante splendide e rispettose parole spese da tutte le alte cariche politiche e giornalistiche del nostro paese.
SERGIO ZAVOLI: IL GIORNALISMO PER RACCONTARE
Ci tengo, caro iCrewer, a sottolineare il fatto che io sono l’ultima penna di questa terra che può immaginare di mettersi a scrivere un articolo per ricordare o celebrare un personaggio di questo tipo. Troppo grande per essere trattato senza avere le basi e la conoscenza per farlo.
Quello che però mi preme, è figlio di una frase che ho sentito poco fa in un programma alla radio in cui Sergio Zavoli, attraverso una vecchia intervista registrata, diceva: secondo lui il giornalismo e il mestiere del giornalista hanno lo scopo di raccontare la vita e la storia. E poi, in riferimento agli anni in cui è stato presidente della Rai, che la TV di servizio pubblico, attraverso dei buoni programmi di inchiesta e giornalismo, deve aiutare lo spettatore a capire la natura delle cose esattamente dove e quando lo spettatore non riesce a farlo da sé.
Trovo che questo pensiero sia meraviglioso, e io mi sento esattamente di far parte di quella grande famiglia degli spettatori, o, comunque, di quei cittadini a cui manca il centimetro per arrivare al centro dei fatti o delle storie. Centimetro che spetta sempre a grandi uomini di cultura, come Sergio Zavoli, ridurre fino allo zero, attraverso il lavoro di qualità e la capacità di essere con le parole nel punto giusto al momento giusto. Un centimetro che fa tutta la differenza tra noi comuni mortali e i grandi uomini che han scritto la storia della cultura nel nostro paese.
Da questi pensieri, l’idea di scrivere questo pezzo, redatto dalla parte di chi, colpevolmente solo oggi, ha scoperto la grandezza di quest’uomo e non da quella di un redattore che facendo qualche ricerca si elegge presuntuoso a voler spiegare chi fosse Sergio Zavoli.
Sono, dunque, rimasto molto colpito dalle parole di Bruno Vespa che ha ricordato come lui abbia imparato il suo mestiere di giornalista, proprio seguendo le grandi inchieste di Sergio Zavoli, diventate dei veri e propri punti fermi della televisione che in questi giorni possono anche essere riviste sulla piattaforma digitale RaiPlay.
Su tutte La notte della repubblica, un approfondimento dedicato agli anni di piombo, andato in onda a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta in cui Zavoli ripercorreva l’ultimo ventennio della storia italiana, scosso da ondate di violenza inaudita, intervistando anche alcuni protagonisti scomodi, come alcuni membri delle brigate rosse.
Mi sono quasi commosso, davanti ai tanti attestati di stima da parte dei colleghi che hanno ricordato la sua grande amicizia con Federico Fellini, figlia del loro essere romagnoli, uno di Ravenna e l’altro di Rimini. In queste occasioni provo sempre ad immaginare la bellezza della normalità di un rapporto tra due persone che per noi, pubblico, di normale hanno ben poco, e che, invece, come si legge da molte testimonianze, trattasi semplicemente di un rapporto simile a tutti quelli che in realtà hanno tutti gli amici, basato sullo scherzo e sulla leggerezza di saper prendere la vita, anche quando questa è costellata di grandi traguardi e grandi successi.
Leggo, e mi compiaccio, di colleghi che ricordano come spesso un giornalista sportivo venga un po’ sminuito, per via della sua sfera di azione, quella che l’ha fatto ricordare a mio padre, che spesso è vista come quella degli appassionati al bar, ma che con Zavoli, uno degli ideatori, tra l’altro, de Tutto il calcio minuto per minuto, e grazie al suo grande percorso prima giornalistico e poi politico ha raggiunto livelli altissimi e ha gettato le basi per tutto quello che negli anni successivi ne è conseguito.
SERGIO ZAVOLI: SCRITTORE
“Zavoli è stato un pioniere della radio”, così diceva oggi un notiziario. E infatti la carriera di Sergio Zavoli è iniziata con la radio, mezzo che se sei solito leggere i miei articoli, caro iCrewer, fa parte del mio piccolo percorso artistico. Un motivo in più, questo, per rimanere a bocca aperta davanti alla grandezza di un uomo che ha dato lustro ad un mezzo di comunicazione che, immagino, nel primo dopoguerra, rappresentasse la vera voce del paese. Ascoltare la radio era l’unico mezzo per conoscere e anche in questo campo Sergio Zavoli ha pensato al suo lavoro in Radio Rai come a un servizio per dare delle risposte.
Risposte che nella vita e nel suo percorso professionale gli sono tornate sotto forma di successi, promozioni, ruoli dirigenziali importanti e cariche statali.
Non sono mancati i riconoscimenti anche a livello letterario, arrivando nel terreno fertile del nostro sito, e qui, caro iCrewer, ti confesso che qualche ricerca l’ho fatta, in particolare dopo aver sentito, sempre in uno dei tanti notiziari, che nel 1981, Zavoli ha vinto il Premio Bancarella con il suo libro Socialista di Dio. Libro il cui titolo riporta il soprannome che gli era stato affidato per via del suo essere vicino alle idee del Partito Socialista e al contempo il suo essere fortemente cattolico.
La sua produzione letteraria è quasi interamente costituita da saggi storici: con Ma quale giustizia? nel 1997 vince il Premio Cimitile, mentre la sua ultima opera risale al 2011 ed è una sorta di autobiografia: Il ragazzo che io fui .
Che Sergio Zavoli raccontasse la sua vita, attraversata da protagonista negli anni più felici della radio e della televisione, oltre che con le prove del suo talento di scrittore e poeta, lo si chiedeva da tempo. Ed ecco un libro di sorprendente modernità che, in un gioco di continui rimandi temporali, tematici e psicologici, unisce alla tensione del racconto la saldezza dello stile e alla versatilità della narrazione il puntiglio del documento, confermando, così, estro e rigore.
Già il titolo rivela non solo un legame, ma addirittura una sorta di contiguità tra gli anni dell’adolescenza, della giovinezza e della maturità con il momento in cui l’autore si decide «a rastrellare dentro se stesso», per dirla con le sue parole, «il ragazzo che io fui»: un rincorrersi, edito e inedito, di memoria e Storia, l’alternarsi di questioni rare e quotidiane, di argomenti concreti e interiori, di tonalità elegiache, ironiche, dure, tutto segnato dai dilemmi di una contemporaneità splendida e tragica, che si misura con l’arcano privilegio di esservi nati e il grave obbligo di viverla.
Ne è emerso un lungo capitolo della nostra vita, ricostruito e indagato attraverso «una ricchezza ispirata dall’immaginazione autenticata dalla realtà», così si espresse Carlo Bo, aggiungendo: «È evidente – in tanta parte di ciò che questo “maestro di scenari e interrogazioni” scrive, mostra e dice – il disegno di tenere dentro il quadrato della lucentezza, anche espressiva e stilistica, la forza e gli urti della coscienza, fino a toccare una ancor più eloquente, civile e morale, eticità».
Perché rimanga, di stagioni e percorsi comuni, quella specie di controcanto che è l’irripetibile esistenza di ogni uomo: minima, nascosta, e tuttavia frammento e cifra della stessa umanità che ha fatto, fa e farà la Storia. È la «lezione» che Zavoli, raccontando se stesso, offre simbolicamente a un bambino, un tenero nipote in cui intravede una sorta di continuità non solo affettiva.
È un libro giovane, con mitezze e intransigenze, dolcezze e dolori, disincanti e speranze, che coinvolge molte età; e si fa leggere – come disse Calvino dei libri autenticamente inusuali – «tutto d’un fiato, e poi daccapo» e ciò perché, scriveva Bo, «Zavoli inclina a dar voce alla sua maggiore speculazione, diciamo pure alla sua intelligenza del mondo, che da anni va scrutando e interpellando in tutte le direzioni».
Il ragazzo che io fui, ci dice l’autore, «è in fondo il tentativo di capire ciò che la memoria, dalla più lontana alla più incombente, può lasciare a un bambino che pare avviato, come fu per me alla sua età, a diventare scriventista, una parola salvata a lungo, in silenzio, dall’immaginazione innocente di mia madre».
CONCLUSIONE
A volte, particolarmente quando scompare un grande nome della cultura come questo, mi domando se la nostra generazione, se questi nostri anni, sono e saranno in grado di regalare al futuro un lascito di altrettanto valore.
Nel frattempo, tra una domanda e l’altra, mi impongo di studiare e conoscere ancora meglio, quei grandi nomi che fanno sentire orgogliosi di essere italiani.