Dacia Maraini è una delle più importanti e influenti scrittrici italiane. Ha scritto una ventina di romanzi, numerose raccolte di poesie, saggi e cortometraggi. Inoltre, ha vinto numerosi premi tra cui il Premio Campiello per il libro La lunga vita di Marianna Ucrìa e il Premio Strega per il libro Buio.
Il 3 ottobre è uscito il suo nuovo libro Vita mia, edito Rizzoli.
Vita mia: la trama
In questo libro l’autrice ripercorre i primi anni della sua vita, gli anni giapponesi.
È il 1943 e Dacia Maraini ha sette anni e vive in Giappone con i genitori e le sorelline Toni e Yuki. La loro vita precipita quando, dopo l’8 settembre, i genitori decidono di non giurare fedeltà al governo della Repubblica di Salò (anche conosciuto come Repubblica Sociale Italiana, fu un regime collaborazionista della Germania nazista). Per questo motivo vengono quindi internati in un campo di detenzione per traditori della patria a Nagoya.
Quindi, attraverso gli occhi di una bambina verranno ripercorsi quegli anni di prigionia contraddistinti da fame, malattie, attesa, gelo e vessazioni.
Con le sue parole l’autrice celebrerà il coraggio e la fedeltà alle idee, il rifiuto del razzismo e l’attaccamento alla vita.
La presentazione del libro
Alla Fiera delle parole, un evento culturale che si tiene ogni anno a Padova da diciassette anni e che prevede otto giorni di appuntamenti con la letteratura, il cinema, la musica, la scienza, l’arte e il giornalismo, per la prima volta è stato presentato il libro Vita Mia dall’autrice stessa e dallo scrittore Paolo Di Paolo.
Paolo di Paolo conduce quindi l’intervista, o meglio, la chiacchierata con Dacia Maraini. Sarà, non solo un approfondimento sul libro e sulla vita dell’autrice, ma anche un’occasione di riflessione su temi come la guerra, la libertà, l’utilità della letteratura, la memoria e i legami affettivi.
Se guardiamo tutti i libri che hai scritto, possono formare un’autobiografia disordinata. Questo libro doveva essere il primo tassello e invece è stato l’ultimo. Quindi partiamo dalla domanda: perché ora? Cosa ti ha spinto a farlo uscire dopo tanti anni nel cassetto?
Ho sempre sentito il peso della responsabilità della memoria, ma avevo una certa ritrosia a scrivere di quei giorni. Forse perché sarebbe stato un dolore rivivere quei momenti. Ora è diventato cicatrice, ma ci ho messo comunque quatto anni per scrivere questo libro.
Ne parlo ora anche per i venti di guerra e di aggressioni che ci sono in questo periodo. La guerra toglie complessità ai rapporti e ai legami che abbiamo, la guerra semplifica: ci sono solo amici o nemici ed è una cosa terribile.
Poi, in realtà, non tutti i miei libri sono storie autobiografiche, molte sono inventate. E’ anche vero che lo scrittore parla sempre si sé in qualche modo: se la storia è inventata, ci mette comunque le sue emozioni. Pensando a tutti i libri che ho scritto, se devo indicare una linea che li unisce direi che è il coraggio, la qualità che più apprezzo perché me l’hanno trasmessa i miei genitori. Il coraggio che, però, non è abuso, non è passare con il rosso, ma è sfidare in proibizionismo quando sbagliato. Infatti, la libertà non è fare ciò che si vuole senza pensare alle conseguenze. Più si è coraggiosi e più si seguono le regole, ma quelle alte, quelle morali.
In che modo i tuoi genitori dimostrarono coraggio?
Quando si rifiutarono di giurare fedeltà alla Repubblica di Salò: difesero le proprie idee e negarono il nazismo nonostante le conseguenze che ci sarebbero state. Inoltre, i miei genitori rifiutarono l’adesione separatamente perché erano stati interrogati singolarmente. A mio padre chiesero se era comunista e lui rispose: “No, è solo che non sono razzista.” Solo 18 persone non firmarono con Salò, qualche professore e alcuni giovani. Mio padre all’epoca aveva solo 25 anni.
Mentre eravamo internati, mio padre cercò di convincere le guardie a rilasciare almeno me e le mie sorelle. Disse che non potevamo essere prigioniere politiche, eravamo troppo piccole. Gli fu risposto: figlie di traditori, traditrici anche loro. Così mio padre prese un’accetta e si tagliò un dito. Nella cultura dei samurai lo yubikiri, cioè il taglio delle dita, è un atto di coraggio che impone al nemico un certo rispetto. Mio padre, che era antropologo, lo sapeva bene. Non a caso, dopo questo episodio i carcerieri, che non avevano mai risposto alle richieste di avere altro cibo, ci diedero una capretta che faceva il latte.
Anche l’antropologia è stata utile.
Rivivendo quei giorni, rivedo tutta la forza e il carattere dei miei genitori. In adolescenza ho avuto rapporti difficili con loro, ma poi ho capito quanto siano stati straordinari. L’educazione non viene dai precetti ma dall’esempio. E loro mi hanno mostrato coraggio e onestà.
Dopo questa esperienza, cosa ne pensi del Giappone? Lo odi? Oggi noi pensiamo al Giappone in maniera positiva e ammiriamo i modi di vita, ma sembra il contrario di quello che viene descritto nel libro.
In realtà io amo il Giappone. I contadini che vivevano vicino al nostro campo erano contrari alla guerra e ogni tanto ci regalavano una patata che noi dividevamo in cinque. Solo le guardie furono sadiche: lanciavano qualche pezzo di cibo in mezzo ai prigionieri solo per vederli accanire.
Anche alla Germania e alla sua cultura pensiamo con ammirazione, eppure ci fu il nazismo. La verità è che le guerre non sono decise dai popoli, ma da chi comanda. Il popolo è la vittima in realtà e, una volta che un regime è stabilito, è impossibile reagire. Infatti, sono sempre stata contraria a prendersela con il popolo russo. Il popolo non ha colpa. Sotto quel regime vengono date notizie sbagliate a cui poi le persone credono perché sono le uniche notizie. Viene tolta la cultura e quindi il libero pensiero. Anche il popolo è una vittima.
Il tema della fame è ricorrente in questo libro, una fame descritta in maniera asciutta, senza speranza: tu che mangi formiche fine ad intossicartene, tuo padre che sfiletta le bisce. In realtà lo avevi anticipato nel libro La nave per Kobe e anche in Bagheria parli spesso di cibo.
Per i giapponesi eravamo traditori della patria, non meritavamo nulla. Il governo in realtà mandava cibo ma poi i giapponesi lo rivendevano. Il fantasma della fame che ho provato in quei giorni non è mai andato via. In Sicilia avevo l’abitudine nascondere il cibo sotto al letto, pensavo al dopo, avevo paura di non averne più.
Il mito del cibo, quindi, ritorna spesso nei miei libri. Ci ha aiutati parlare di cibo. Parlavamo di cibo, dell’Italia, di Firenze e Palermo che era la città di mia madre.
C’è qualcos’altro che vi ha aiutato ad avere la forza di lottare?
Non era tanto parlare di cibo che ci ha aiutati. Ma proprio parlare. La parola.
Mio padre scriveva poesie, purtroppo andate perdute, con le mani tremanti per il freddo. Mia madre scrisse un diario finché non consumò la matita. Usava un quadernetto che nascondeva nella bambola di mia sorella.
Nel libro Fahrenheit 451 i libri sono pericolosi e vengono bruciati. Quindi la resistenza viene fatta imparando i libri a memoria. Allo stesso modo, i miei genitori trovarono resistenza nelle parole. Mio padre ci raccontava i classici greci e mia madre le favole. La parola, la poesie o qualsiasi cosa che ti porti via dalla brutalità ti possono salvare. Dove è negata la giustizia, la parola è un liquore che dona sollievo.