Caro Icrewer,
quando parliamo di filosofia, di solito, pensiamo ai grandi pensatori greci come Socrate, Platone, Aristotele o quelli moderni europei come Schopenauer, Hegel e via dicendo. Spesso ci rivolgiamo anche all’Oriente e alla sua filosofia spirituale.
Oggi, però, voglio portarti in un luogo diverso, altrettanto antico, culla di una cultura spesso dimenticata o messa in secondo piano: l’Africa.
Ti dice niente la parola Ubuntu? No? Bene! Allora mettiti comodo e preparati a leggere il resto!
Ubuntu, una filosofia africana
Ubuntu non è una parola, ma un concetto, un sistema filosofico e pertanto è difficile tradurlo. Partiamo dalle parole di Desmond Tutu, arcivescovo e attivista sudafricano nonchè premio Nobel per la pace:
Quando vogliamo lodare grandemente qualcuno, diciamo: “Yu, u nobuntu”, “Ehi, questa persona ha ubuntu”. Vuol dire che è generoso, accogliente, benevolo, sollecito, compassionevole.
La parola “Ubuntu” proviene dalle lingue bantu dell‘Africa meridionale, in particolare dalle culture zulu e xhosa, e il suo significato è profondo e complesso. Ubuntu è un concetto filosofico che può essere tradotto in italiano come “umanità verso gli altri” o “io sono perché noi siamo”. Questa espressione racchiude l’idea che la nostra esistenza e il nostro benessere sono intrinsecamente collegati a quelli degli altri, sottolineando l’interdipendenza e la condivisione come valori fondamentali dell’esistenza umana.
La filosofia Ubuntu è profondamente radicata nelle società africane dove la comunità e la collettività sono fondamentali per la sopravvivenza e il benessere individuale. Essa permea ogni aspetto della vita quotidiana, dalla struttura sociale alle pratiche rituali, creando un tessuto sociale basato su relazioni armoniose, rispetto e aiuto reciproco.
Nelle comunità rurali africane, è comune vedere persone che si aiutano a vicenda nella costruzione di case, nella cura dei raccolti e nel prendersi cura dei bambini, indipendentemente dai legami di parentela. Questa cooperazione e solidarietà si estendono anche ai momenti di difficoltà, come malattie o lutti, dove l’intera comunità si unisce per offrire supporto emotivo e pratico.
Un esempio pratico di Ubuntu può essere visto nelle tradizioni di giustizia restaurativa utilizzate in molte comunità africane. Invece di punire severamente chi ha commesso un reato, la comunità si riunisce per discutere e risolvere il problema, cercando di ripristinare l’armonia e reintegrare l’individuo nel tessuto sociale. Questo approccio non solo mira a guarire le ferite delle vittime, ma anche a riabilitare i colpevoli attraverso la comprensione e la riconciliazione.
In Africa questo concetto ha anche una connotazione fortemente religiosa. Grande importanza assumono gli antenati, gli spiriti familiari grazie ai quali la comunità, su cui ruota ogni cosa, si è ingrandita ed è potuta prosperare. A loro non ci si rivolge chiamandoli per nome, ma per cognome, per sottolineare non la loro individualità ma il ruolo sociale che hanno ricoperto all’interno della comunità.
Ubuntu, la via per la felicità
Ma questa filosofia non è circoscritta soltanto ai territori dell’Africa meridionale, ma anzi si è diffusa rapidamente anche altrove. Grazie soprattutto a Nelson Mandela, Desmond Tutu ma anche a Barack Obama più di recente, che ne hanno fatto un caposaldo delle loro attività politiche, il pensiero ubuntu ha avuto una risonanza e diffusione mondiale.
Il libro Ubuntu. La via africana alla felicità, edito da Rizzoli, è una guida perfetta per conoscere meglio ogni aspetto di questa filosofia. L’autrice è Mungi Ngomane, nipote dello stesso Desmond Tutu, nata e cresciuta in una famiglia in cui l’Ubuntu era una bandiera da sventolare con orgoglio.
La società occidentale e ultramoderna di oggi è una società frenetica, caotica, cosmopolita fatta di sfide e interazioni complesse. Per venirne fuori, per non soccombere ad essa, molti manuali incoraggiano alla competizione, a “lottare” per strapparsi la propria fetta di felicità in un mondo che sembra volerci perennemente infelici e insoddisfatti. Ma ci sono anche molti manuali di “auto-aiuto” che ci invitano a riflettere, a meditare, a staccarci dal mondo e a rifugiarsi in noi stessi, come se soltanto lì potessimo trovare la pace.
La filosofia dell’ubuntu, come spiega Ngomane nel suo libro, rovescia entrambe queste prospettive. Incoraggia a guardare fuori da noi, ad affidarci alle persone che ci circondano, perché in fondo “una persona è una persona attraverso altre persone”. L’ubuntu ci affida un messaggio di grande umanità, che riconosce l’armonia, l’equilibrio e la felicità ultima nel contatto tra le persone. Qualcosa che va oltre il principio, comune a tutte le maggiori religioni, del non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. L’ubuntu è infatti un contatto vivo, attivo, di empatia e ascolto, ma anche il riconoscimento di quanto siamo interdipendenti.
Dallo spirito di solidarietà che trasuda da questa filosofia ciascuno di noi può imparare moltissimo. La nostra umanità, il nostro “essere umani” sta unicamente in questo: aiutarci a vicenda, sostenerci e rispettarci reciprocamente. Se smettiamo di comportarci in questo modo, allora cessiamo di essere delle persone, ma se tutti seguissimo davvero questo semplice principio su cui si basa la filosofia ubuntu allora il mondo intero sarebbe un posto migliore.
Non è poi così complicato, non trovi?