Ho cercato la mia anima, ma non riuscivo a vederla.
…ho cercato il mio Dio, ma il mio Dio mi sfuggiva.
… poi ho cercato mio fratello e ho trovato tutti e tre.
Anonimo
Fabio Angelino e la magia custodita nelle parole del suo Migliore Amico
Cari iCrews, oggi per la rubrica Sogni di Carta ho il piacere di presentarvi lo scrittore Fabio Angelino, di cui ho recentemente avuto l’onore di leggere l’ultimo romanzo dal titolo Il Mio Migliore Amico.
Caro Fabio Angelino vuoi raccontarci chi sei al di fuori del mondo della scrittura?
Lavoro nel laboratorio ‘controllo qualità’ di un’azienda tessile biellese. Guardo tanti film, sono un tifoso dell’inter. Anche se sono tempi duri per i tifosi nerazzurri.
So che hai una dolcissima cagnetta. Vuoi svelarci qualcosa di lei?
Alaska è un Siberian Husky. Più che un animale domestico è una vera e propria coinquilina. Orgogliosa, ama farsi i fatti suoi, per certi aspetti è molto più simile a un gatto che a un cane. Ma nonostante tutto sa farsi voler bene ed è coccolata da tutti.
È realmente stupenda!
Iniziamo con le domande più serie: quando hai iniziato a scrivere?
Ho sempre amato creare storie, appuntare pensieri sul cellulare o nei quaderni di scuola. Ma a scrivere con costanza ho iniziato a circa ventidue anni.
È stata più una necessità. Ho tanto da dire… emozioni che mi appartengono e che vorrei riuscire a trasmettere. E la scrittura è un modo meraviglioso (anche se complicato) di esternare quello che abbiamo dentro.
Quali sono i romanzi che hai scritto?
Oliver, 2015
Il mio Migliore Amico, 2016
Ci lasceresti la sinossi del Il mio migliore amico?
Marco ha solamente undici anni e da qualche anno ha perso Samuele, il fratello maggiore, morto per un tragico incidente avvenuto in casa. Da quel momento la sua vita è stata stravolta.
Il rapporto tra i genitori si è incrinato. Non si amano più e rimangono insieme solamente per il suo bene. Sua madre è fredda, soffre di depressione; suo padre parla poco e rientra a casa sempre stanco dal lavoro.
La sua vita cambia nuovamente quando sua madre viene assunta come cameriera in un ristorante del centro. I genitori decidono, nelle ore in cui sono impegnati a lavorare, di affidarlo al nonno paterno, con il quale i rapporti non sono idilliaci…
Perché la scelta di trattare un tema così importante ne Il mio migliore amico?
Non è stata una scelta premeditata la storia di questo libro. Era un periodo in cui ogni giorno, dopo pranzo, mi sedevo davanti al computer e scrivevo qualsiasi cosa mi venisse in mente.
Il giorno dopo, leggendo quello che sarebbe successivamente diventato il primo capitolo di questo romanzo, mi sono reso conto che questa storia meritava di andare avanti. E così ho continuato, ma senza avere un’idea ben precisa.
La perdita di una persona cara è comunque un argomento che tratto spesso, forse per esorcizzare la paura della morte, della perdita.
Ci sono cenni autobiografici?
No, il libro è ambientato a Vandorno, il paese in cui sono nato, ma la storia è frutto della mia fantasia. In molti mi hanno fatto questa domanda.
Hai qualche scrittore a cui aspiri? O che ti ha ispirato?
Aspiro più che altro ad entrare nelle case di più gente possibile. Immaginare il mio libro sul comodino di un ragazzo che magari abita a chilometri di distanza da me è una soddisfazione.
Autori che mi piacciono ce ne sono tanti. Potrei citare Hamingwey, ma cerco di non fossilizzarmi mai su qualcuno, per evitare che il mio stile poi assorba troppo del suo. Anche Woody Allen è per me un esempio ed è forse l’autore cinematografico che più ammiro. I miei libri preferiti comunque sono Fiesta, L’amico ritrovato e Il conte di Montecristo.
C’è un gioco della PlayStation che ti piace particolarmente?
Da piccolo ero innamorato di Donkey Kong. Ricordo che per riuscire a comprarlo, iniziai a mettere da parte tutte le monete che trovavo in casa, infilandole in una grossa damigiana. Impiegai un po’ a raggiungere il mio obiettivo. Forse è per questo che sono legato così tanto a quel videogioco.
Sapresti immaginare la colonna sonora ideale per il tuo libro?
Non saprei, ascolto molta musica quando scrivo. Forse potrei citare la colonna sonora di Giù la testa. Il leitmotiv principale è meraviglioso: un pezzo agrodolce firmato dall’immenso Morricone.
Sei mai stato a un concerto? Hai un ricordo di cui vuoi parlarci?
Ascolto un po’ di tutto, ma il mio cantante preferito è senza dubbio Masini. Ho assistito anche a diversi suoi concerti. Non mi fossilizzo su un genere solamente. Ascolto un po’ di tutto, dal pop alla classica, dagli Arctic Monkeys a Calcutta. Mi piace variare.
Ringrazio Fabio Angelino per la bella intervista e per avermi concesso di leggere il suo romanzo.
Cari iCrewers, in conclusione, vi voglio omaggiare di un estratto veramente sublime de Il mio migliore Amico:
Erano circa le otto e mezza di un sabato sera di metà febbraio e mia mamma mi stava versando un po’ di minestra calda nel piatto, quando mio padre entrò euforico in cucina, lasciando cadere il suo zaino a terra, vicino alla porta.
Nella sua azienda era arrivato molto lavoro, e aveva iniziato a lavorare anche il sabato. Era da tanto tempo che non lo vedevo sorridere così, anche i suoi occhi sembravano finalmente felici e continuava a tirarsi indietro i pochi capelli che gli erano rimasti. «Mi hanno promosso» disse, con la voce rotta dalla commozione, appoggiandomi una mano sulla spalla e puntando i suoi occhi allegri verso mia mamma che, però, sembrava non essersi nemmeno accorta dell’entrata di suo marito e continuava a versarmi la minestra nel piatto, una mestolata dietro l’altra.
Guardai mio padre negli occhi e potei notare il mutamento repentino del suo sguardo, le sue iridi sciogliersi ed esplodere in poche lacrime, che stavano scivolando leggere sopra il suo viso affranto.«Mi hanno promosso» ripeté, ma con meno vigore, come se la gola gli si spezzasse e qualcuno gli stesse tirando un pugno dietro l’altro nello stomaco. Mia madre lo guardò. Occhi di cerbiatta, cuore di pietra. «Sono contenta per te» disse, poi appoggiò la pentola e andò a sedersi al suo posto, mentre la mano di mio padre, appoggiata alla mia schiena, iniziava a tremare. «Non sei felice per me?» Mia madre alzò lo sguardo e osservò mio padre, come se non avesse capito che si stesse rivolgendo a lei. «Sì, molto. Sono solo un po’ stanca.»
«Ah.»
«Io sono felice, papà» gli dissi, sorridendo, e lui mi rispose con un sorriso contenuto, non sbucò nemmeno il bianco dei denti fra le labbra, che teneva strette, per soffocare il pianto. «Anche mamma è felice» aggiunsi, «vero, mamma?». La guardai negli occhi e lei distolse lo sguardo. Faceva così male guardar negli occhi il proprio figlio? Oppure non voleva che capissi i suoi reali sentimenti? «Ho già detto che sono felice, tesoro. Ora mangia la minestra che altrimenti si raffredda» rispose, pinzandosi il naso tra l’indice e il pollice per una frazione di secondo. Era uno dei suoi innumerevoli tic, che la valeriana e qualche ansiolitico non erano riusciti a eliminare.
Mio padre rimase un po’ fermo, poi andò in bagno a lavarsi la faccia. Mia madre girò il cucchiaio due, tre volte, formando dei cerchi sulla superficie della minestra, poi prese il suo piatto e andò a rovesciarlo nel lavandino. «Ho messo troppo sale» disse, per giustificare il suo poco appetito. Mangiava sempre meno, il suo corpo, ogni giorno che passava, diventava sempre più sottile e fragile e le occhiaie sul suo viso scavato si accentuavano sempre di più. Anche la sua voce sembrava essersi indurita e diventata più spigolosa.
Mio padre tornò in cucina con la faccia umida e gli occhi rossi. Una volta fuori si era lasciato andare e aveva pianto, non riuscendo a cancellare del tutto i segni delle lacrime. Si sedette e notò che il suo piatto era vuoto. Si alzò e andò verso la pentola. La minestra per lui non c’era. Non disse nulla, guardò per un istante mia madre e poi aprì il frigo. Lo richiuse subito, gli era passata la fame. Decise comunque di rimanere in cucina e venne a sedersi vicino a me. Mi guardò mangiare e io cercai di non sbrodolarmi, per fargli vedere che ero cresciuto e che avevo imparato a mangiar la minestra come diceva lui, senza sorbire e senza farne cadere nemmeno una goccia sulla tovaglia. Mi osservava sorridente, guardarmi mangiare sembrava rincuorarlo, distrarlo. In verità stava pensando a tutt’altro e la sua calma apparente era solamente il risultato di una maschera di cera modellata negli anni. Anni di sofferenza, di disperazione, di felicità strappata via come carne dal corpo di una vita che non amava più e che teneva stretta fra le mani solamente per me, il suo unico figlio. Per esser precisi: l’unico figlio che gli era rimasto.
Raramente mi concedo il lusso di poter esprimere un mio parere, ma in questo caso lo voglio fare.
Credo che Fabio Angelino custodisca in sé un grande talento e gli auguro di avere il coraggio e – perchè no? – La Fortuna di mostrarlo al mondo. Buona fortuna e come dico sempre:
In alto i nostri cuori.
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