Il mondo dei libri, come ben saprai se sei un lettore attento, è vario, vasto e riesce a soddisfare ogni gusto: dal romanzo, al giallo, al fantasy, chi legge non ha che l’imbarazzo della scelta. Moderne o antiche, ci sono storie che riescono sempre a coinvolgere il lettore, affascinarlo e trasportarlo anche in altre epoche: sarà per questo che possiamo trovare diverse edizioni di romanzi che hanno avuto e continuano ad avere molti lettori? Penso di si, se non altro è quanto è capitato al romanzo che ho appena finito di leggere: Mathilda di Mary Shelley, Darcy Edizioni, tradotto da Alessandranna D’Auria.
Mary Shelley è stata una scrittrice, saggista e biografa inglese, nata nel 1797 e morta nel 1851. Figlia d’arte di genitori filosofi e scrittori, la madre Mary Wollstoncraft, antesignana del femminismo, il padre William Godwin, politico e scrittore a sua volta. Mary Shelley, a soli 19 anni pubblicò il famoso Frankenstein (da cui è tratto l’altrettanto famoso film) curò, inoltre, le edizioni delle poesie del marito Percy Bysshe Shelley, poeta romantico e filosofo.
Orfana di madre a soli dieci giorni dalla nascita, crebbe con Mary Jane Clairmont, sposata da suo padre in seconde nozze. Ebbe un’educazione ricca e informale e fu incoraggiata ad abbracciare gli ideali politici ma nel 1814 incontrò l’amore della sua vita, uno dei discepoli del padre, Percy Bysshe Shelley, all’epoca già sposato. L’amore folle, si sa, non conosce ostacoli, Mary fuggì in Francia con il suo Percy e dopo aver viaggiato per l’Europa, furono costretti a rientrare in Inghilterra: d’amore e senza soldi, si vive solo fino ad un certo punto. Intanto però Mary Shelley era già incinta e la bambina che nacque morì pochi giorni dopo il parto prematuro, senza aver ricevuto nemmeno un nome.
Dopo aver dato alle stampe il suo primo romanzo, Frankestain, Mary e l’amato Percy si recarono in Italia. Il Bel Paese non portò molta fortuna alla coppia, qui infatti morirono Clara Everina e William, rispettivamente loro seconda e terzo figlio. Solo il quarto figlio, Percy Florence, nato a Firenze, fu l’unico a sopravvivere ai genitori. Un anno dopo la morte del marito, defunto anche lui in circostanze tragiche, Mary Shelley ritornò in Inghilterra dove si dedicò totalmente alla carriera di scrittrice, in modo da poter mantenere il figlio. Trascorse l’ultima parte della sua vita in malattia e morì all’età di 53 anni.
Fino al 1970, Mary Shelley è stata ricordata principalmente per l’apporto dato alla comprensione e alla pubblicazione delle opere del marito e per il romanzo Frankestein, Recentemente, una più profonda conoscenza del suo profilo letterario ha evidenziato il suo valore di scrittrice, portando alla luce una ricca produzione di romanzi, articoli e saggi.
Mi sono volutamente dilungata sulle note biografiche perchè una vita travagliata come quella di Mary Shelley, fa comprendere meglio ed avrà sicuramente influenzato la natura del suo stile di scrittura. Mathilda è un romanzo breve con parecchi riferimenti autobiografici e va letto inquadrandolo sullo stile dell’epoca, il primo Ottocento con tutti i suoi annessi e connessi, tenendo ben presente il modus vivendi del tempo, molto lontano dal nostro. Inoltre, il Romanticismo e le sue peculiarità avranno certamente influenzato non poco la nostra scrittrice: Mathilda la protagonista del romanzo, incarna perfettamente l’eroina romantica che si strugge e crogiola nel dolore, il “masochismo compiaciuto” era una delle tematiche romantiche, diventando vittima di se stessa, oltre che delle circostanze. Sono stati questi i canoni fondamentali che ho fissato per approcciarmi alla lettura di Mathilda di Mary Shelley.
Una lettura che mi ha catapultata in un mondo temporalmente lontano, il romanzo infatti è stato scritto nel 1818: Mathilda, la protagonista, incarna tutte le caratteristiche della condizione femminile di quel tempo, con l’aggiunta, come accennavo sopra, di qualche nota autobiografica: la perdita della madre subita dopo la nascita o lo stato di prostrazione profondamente doloroso in cui viene a trovarsi che coincide con quello dell’autrice, dopo la perdita dei figli.
Mathilda è un romanzo breve, scritto sotto forma di lettera: una lunga lettera che la protagonista, ormai in fin di vita, scrive all’unico e fidato amico, rivelandogli, come una sorta di liberazione la verità vergognosa che le ha avvelenato corpo e mente, fino a condurla alla morte, da tempo aspettata e desiderata. Una lunga e dolorosa lettera che comincia dalla fine di un’esistenza e che via via racconta gli antefatti: dall’amore totale che i suoi genitori avevano l’uno per l’altro, alla sua nascita, alla morte della madre, l’abbandono del padre, l’infanzia in solitudine, il ritorno dello sconosciuto genitore e l’amore morboso che lui si trova a nutrire per la figlia e che finisce per distruggere entrambi. Tutta la storia è pervasa da un’atmosfera pesante e tetra che rende bene l’idea delle sofferenze morali della protagonista: la solitudine, cui l’unico antidoto era il rifugio nelle bellezze della natura, il senso di colpa che accompagna i suoi ultimi anni, e la tragedia finale che vede la morte regnare su tutto.
Un romanzo denso di inquietudine e dolore che conduce all’esplorazione dell’animo di Mathilda (che è lo stesso animo dell’autrice) e fa soffermare il lettore sulle sue inquietudini quasi con insistenza, quasi con il piacere della sofferenza, in una sorta di voluto masochismo che è stato il filo conduttore di una certa letteratura di quel periodo e che accompagnava le eroine ottocentesche. La morte, alla fine, è vista come liberazione, come riposo dell’anima dopo una vita breve ma martoriata e carica di dolore interiore a cui non è possibile porre fine in nessun modo: una vera e proprio eroina della tragedia melodrammatica, questa Mathilda!
Infatti, ci sono proprio tutti gli elementi di un melodramma ottocentesco nel romanzo: sulla scia del filone melodrammatico è lo stile di scrittura, non so quanto questo sia dovuto alla traduzione di Alessandranna D’Auria e mi rendo conto che non sarà stato certo facile tradurre un romanzo dall’inglese di più di due secoli fa; lo stesso linguaggio usato dai protagonisti, ricorda quello dei librettisti d’opera tipici di quel tempo. Proprio per queste caratteristiche la lettura non scorre facile, i periodi lunghi e articolati, in molti passaggi fanno pensare ad una prosa poetica d’annata, probabilmente dovuta all’influenza del marito poeta, di cui Mary Shelley fu curatrice.
Un’altra delle cose che mi ha lasciata perplessa è la divisione in due sezioni del libro: la prima, comincia con Mathilda che scrive all’amico raccontandogli tutta la sua vita, anzi cominciando addirittura da quella paterna, la seconda sezione che reca come titolo I campi della fantasia, appare slegata dal resto e, confesso la mia totale incapacità di comprendere che cosa c’entra con il romanzo anche se, in una nota a piè pagina, si legge (riporto testualmente): Questo brano rappresenta una prima bozza del racconto finale, smembrato in varie parti e conservato in diverse collocazioni. I capitoli I e II qui presentati, fanno parte della collezione di Lord Abinger, conservata alla Duke University di Durham, North Carolina. Ora mi chiedo: “Cosa c’entra questa seconda sezione che non ha elementi in comune con il romanzo? E sopratutto, perchè la curatrice del testo in italiano ha voluto aggiungere questa ulteriore parte che sembra non avere nulla in comune con il resto? O magari sono io che non ho visto le connessioni? Altra ipotesi potrebbe essere quella di due storie inserite nello stesso libro… Allora perchè non specificarlo?” Concludo così questa recensione, con una serie di quesiti senza risposte: Magari chissà, forse qualcuno leggendo Mathilda di Mary Shelley, con la traduzione di Alessandranna D’Auria, me le saprà dare.