Dopo averlo trovato citato nel Libro di tutti i libri di Roberto Calasso, mi era rimasta la curiosità di leggere l’ultima opera di Sigmund Freud, a dire il vero un po’ sottovalutata. Sono in molti a mettere in dubbio le conclusioni storico-critiche del Maestro, non io, che le trovo molto verosimili, però, effettivamente, è un libro anomalo nel corpus freudiano. Ma fino a un certo punto.
Una caratteristica di Freud è che scrive i saggi come fossero gialli. Come il più abile dei detective, raccoglie indizi, li collega, li confronta e, alla fine, risolve il caso (clinico). Con Mosè Freud non dispone di fatti certi per la sua indagine perché ne esiste un’unica testimonianza, scritta molto tempo dopo che i fatti erano accaduti, oltretutto spesso incoerente e, sicuramente, rimaneggiata più volte. Ma Freud non si scoraggia e ci stupisce ancora una volta. Con un metodo affine a quello di Sherlock Holmes (i due si erano incontrati in Soluzione al sette per cento, ma questa è un’altra storia)
che sosteneva che “una volta eliminato l’impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità” (come avrete potuto vedere, è proprio in Soluzione al sette per cento che Holmes rivela il suo metodo al dottore), Freud utilizza la legge della “minima resistenza”, ossia scartando l’improbabile e privilegiando le ipotesi più verosimili. Perciò ha definito la sua ultima fatica un “romanzo storico”, perché la verosimiglianza non è la verità anzi, come osserva egli stesso, la verità è spesso inverosimile.
Se vogliamo un’altra prova della peculiarità di questo libro; mentre lo scriveva, Freud scambiava opinioni non già coi suoi colleghi scienziati, ma col romanziere austriaco Arnold Zweig. Quindi, per una volta, dimentichiamo che Freud è un grande scienziato e godiamoci il suo romanzo; togliamo fonti, citazioni, bibliografie e limitiamoci alla storia, che è originale e affascinante.
Durante la diciottesima dinastia l’Egitto era al suo massimo splendore politico, economico e intellettuale. Proprio in quei tempi, sotto l’influenza dei sacerdoti del dio Sole, comincia a farsi strada l’idea di un dio universale, Atòn. Quando assurge al trono il giovane faraone Amenofi IV eleva la religione di Atòn a religione di stato e, grazie a lui, il dio universale diviene l’unico dio. Tutto ciò che si racconta degli altri dèi è falso, la magia è da respingere, come pure l’idea della vita dopo la morte, tutto ciò che apprezza il nuovo dio è Maat, ovvero ”giustizia e verità”. Il faraone assume il nome di Ekhnatòn: “piace ad Atòn”. Il monoteismo, dunque, nasce in Africa intorno alla metà del XV secolo avanti l’era volgare.
Bastano le minime nozioni scolastiche sull’Egitto per immaginare che i potentissimi sacerdoti non sarebbero rimasti inattivi; infatti la loro vendetta fu feroce, il faraone fu ucciso e bollato come malfattore, la capitale saccheggiata, la diciottesima dinastia si estinse e iniziò un periodo di generale disordine. La religione di Atòn fu abolita. Fedele a Ekhnatòn e al dio universale era rimasto il governatore di una provincia di frontiera, di nome Tutmosi-Mose, che significa “Tutmosi (ha dato un) bambino”. La fine di Ekhnatòn non significava solo la fine del dio nel quale credeva, ma anche la sua stessa fine; anche lui avrebbe potuto essere ucciso o rinnegato e proscritto. Come governatore della sua provincia era venuto in contatto con una tribù immigrata da alcune generazioni; Tutmosi-Mose si rivolse agli stranieri per farne il suo popolo e convertirlo alla fede di Atòn. Li convinse a uscire dall’Egitto e conquistare di nuovo la terra dalla quale erano emigrati. Forse per questo Tutmosi-Mose divenne semplicemente Mosheh, che in ebraico significa “colui che trae fuori”. Ma se una religione altamente spirituale come quella di Atòn era difficile da recepire da un popolo colto come quello egiziano, figuriamoci da una rozza tribù di pastori. Mosè ebbe il suo daffare: continui ritorni all’idolatria, malumori durante il viaggio verso la Terra Promessa con l’idea che “si stava meglio quando si stava peggio”, fatto sta che i recalcitranti ebrei un giorno si ribellarono e lo ammazzarono, e respinsero, anche loro, la religione di Atòn.
Successivamente, la tribù esule si unì alle altre tribù loro affini, fra la Palestina e la penisola del Sinai e, sotto l’influsso degli arabi Madianiti, fra i quali c’era un altro Mosè, genero di Jethro e sacerdote del dio vulcanico Iahvè, abbracciarono una nuova religione. Iahvè non era un dio unico, ma era il più potente e, sotto la sua protezione, gli ebrei conquistarono Canaan. Della religione del primo Mosè gli ebrei avevano mantenuto qualcosa: la circoncisione, che era pratica corrente in Egitto, e la casta sacerdotale dei leviti, che altri non erano che gli egizi che avevano seguito il governatore Tutmosi-Mose nel suo esodo. Tutto sembrava finito per la seconda volta ma, incredibilmente, non fu così. Se Iahvè era il dio violento che ci voleva per conquistare Canaan, nel corso del tempo l’idea del dio unico di Mosè riprese forma. Vuoi che i leviti non lo avessero del tutto dimenticato, vuoi che l’azione terribile dell’uccisione del padre della fede, rigorosamente rimossa, tornasse freudianamente alla memoria dopo il periodo di latenza, il dio degli ebrei cominciò ad assomigliare sempre di più al dio di Mosè, Atòn.
Dunque Freud ribadisce quanto aveva dimostrato in Totem e tabù, ossia che la religione non è che una nevrosi ossessiva dell’umanità.
Vorrei limitarmi alla letteratura, ma un paio di precisazioni scientifiche mi sembrano doverose per avvalorare la tesi del Maestro. Non mi avvalgo delle teorie psicoanalitiche, per non giocare in casa di Freud, ma della linguistica.
Uno dei nomi più frequenti del dio ebraico è Adonay, composto da Adon-ay, ossia “Signore-nostro”. Inutile fare notare la somiglianza fra Atòn e Adòn che differiscono solo nella consonante dentale, che in un caso è sorda, nell’altro sonora. Per cui la confessione di fede ebraica “Shemà Ysrael, Adonay Elohenu Adonay Echod” suonerebbe “Ascolta Israele, il nostro Dio Atòn è l’unico Dio”. Si noti poi l’assonanza fra Iahvè e Iovis, genitivo di Iuppiter; entrambi gli dèi avevano caratteristiche e anche il caratteri molto simili, anche se Giove era molto più ragionevole.
Per concludere,
vorrei annotare quello che, secondo Freud, è il vero motivo delle incessanti persecuzioni agli ebrei. Inutile dire che anche questa ipotesi non è stata presa per buona da tutti, ma a me sembra piuttosto verosimile.
La vicenda di Mosè dimostrerebbe che gli ebrei avrebbero rimosso meno bene, anzi lascerebbero ben trasparire l’evento degli eventi: l’uccisione del padre primordiale. L’omicidio di Mosè, loro fondatore, lo avrebbe fatto riaffiorare. Ecco, quindi, perché gli ebrei per alcuni sono intollerabili: perché sono troppo vicini all’origine di tutti noi e il ricordo di questa origine è intollerabile. E forse, aggiungo io, raccogliendo il ragionamento di Freud, potrebbe essere lo stesso il motivo di tanta incredibile sopportazione di tante ingiustizie da parte degli ebrei: il senso di colpa rispetto al delitto primordiale che tutti proviamo, ma che per loro è più vicino nel tempo e quindi ne sono maggiormente consapevoli.