Kintu, di Jennifer Nansubuga Makumbi
un libro edito da 66th and 2nd. Caro iCrewer eccomi a raccontarti la mia ultima esperienza di lettura: cercando tra gli autori ugandesi, nel nostro viaggio letterario intorno al mondo, mi sono imbattuta in questa autrice e nella sua opera, dalla trama potente ed evocativa, e così mi sono procurata il libro ed eccomi qua: ti posso subito anticipare che il viaggio che ho compiuto è stato per me molto ispirante ed educativo, e anche un po’ spirituale, politico e umanistico.
Tutto questo in un romanzo? Assolutamente sì. Non a caso, il testo ha vinto l’equivalente del premio nobel della Letteratura, il Windham-Campbell Prize, anche se ci è voluto un po’ di tempo prima che qualcuno si accorgesse di quale opera avesse tra le mani.
Temevo di trovarmi di fronte ad una scrittura complessa, invece con mia grande sorpresa l’autrice fa scorrere le parole come un placido ruscello di montagna, riuscendo a trasmettere con pochi termini semplici e chiari le esatte atmosfere dei luoghi e dei personaggi coinvolti in questa lunga… storia di famiglia, la possiamo definire, ma al tempo stesso storia dell’umanità.
Kintu Kidda: l’inizio di tutto, un capoclan della provincia di Buddu, in Buganda, nel 1750. Attraverso la nascita dei suoi eredi, legittimi e non, si ripercorre la storia di un Paese dapprima florido e in armonia coi cicli naturali e ultraterreni, il cui declino inizia con l’avvento dell’uomo occidentale. Passo dopo passo, vengono distrutte l’identità e la forza di un popolo fiero e ricco, in nome di scienze e credo formatori di una società (la nostra, n.d.r) prevaricatrice e sempre più prova di qualsiasi contatto con la vera spiritualità.
Nel mezzo, una maledizione lanciata da un padre disperato e addolorato, che riuscirà a modellare il destino dei discendenti di Kintu, fino all’espiazione finale. Tutti i personaggi raccontano un pezzo di sé e al tempo stesso di storia e politica di intere nazioni. Le guerriglie, i soprusi, la fame, le malattie, le conversioni religiose e gli inestimabili danni che l’occidente ha procurato e continua a procurare al popolo africano. Il passo a mio parere più significativo di questo libro è il seguente:
“Dopo cena Miisi si sdraiò sul letto in attesa del sonno. Da quando era stato a trovare Kaleebu rimuginava sul modo migliore di spiegare la colonizzazione. Lo allarmava che la colonizzazione europea non suscitasse rabbia tra gli ugandesi. Si mise a sedere e scrisse il titolo in inglese: AFRICANSTEIN
Poi lo tradusse in luganda: EKISODE
Il Buganda, a differenza del resto dell’Africa, fu portato in sala operatoria con lusinghe e promesse. Il protettorato era la chirurgia plastica mirata ad accelerare il percorso del fiacco corpo africano verso la maturità. Ma una volta anestetizzato il paziente, il chirurgo fu libero di fare di testa sua. Per prima cosa amputò le mani, poi le gambe, mise le membra nere in un sacchetto e lo gettò via. Poi prese delle membra europee e le trapiantò sul torso nero. Quando l’africano si svegliò, l’europeo si era trasferito a casa sua.”
Ho ancora nel cuore tutta la famiglia di Kintu e i suoi eredi, le loro peripezie, i loro amori, gli orrori vissuti e le speranze riposte nella loro vera identità, l’unica forza reale in grado di riportare equilibrio. Questo libro non è solamente una saga familiare, uno storico o un mero saggio sull’involuzione di un popolo – quello africano – ma è soprattutto, a mio avviso, una memoria da condividere e perpetrare per non dimenticare chi siamo, per non perderci del tutto in questa follia, chiamata occidente, chiamata società moderna.