Dopo Le nozze di Cadmo e Armonia, secondo indimenticabile libro di Roberto Calasso, che narrava la mitologia greca come fosse un romanzo, dopo Ka, che è la stessa cosa, ma sulla mitologia indiana, a cui è seguito, con argomento analogo, L’ardore, ecco che Roberto Calasso, uno dei più rilevanti saggisti e narratori italiani, si cimenta con la mitologia biblica. Non lo fa in ordine cronologico, a parte il breve capitolo introduttivo dove si dice che la Torah fu scritta 974 generazioni prima che il mondo venisse creato da colui che ha 99 nomi e che noi, come fa Calasso, chiameremo col nome del tetragrammaton יהוה, ossia Iahvè, sennò, a usare tutti e 99 i nomi si corre il rischio di non sapere mai di chi si sta parlando. Si parte dal primo libro di Samuele, ossia da quando Israele pretende un re, come tutti gli altri paesi normali, in luogo della tradizionale teocrazia. A quel tempo era profeta Samuele; fosse stata una repubblica parlamentare diciamo che Samuele sarebbe stato il presidente del consiglio, Iahvè il presidente della repubblica. Samuele, costretto dal popolo, unge re d’Israele Saul, ma Saul è un re per modo di dire perché è sempre Samuele che, alla fine, decide tutto con la scusa che è Iahvè a dirglielo. Questo non lo dice Calasso, lo dico io perché sta scritto sulla Bibbia: Samuele è un uomo di potere e rende impossibile governare a Saul: gli rinfaccia continuamente che è re solo perché lui l’ha unto, gli predice sorti funeste perché Iahvè è in collera con lui a causa della sua disubbidienza (ovvero, di fatto, perché non vuol obbedire a Samuele), insomma, alla fine Saul comincia a dare segni di squilibrio o, almeno, di una forte depressione. Anche quando Samuele, finalmente, muore Saul continua a esserne terrorizzato. Il secondo re, Davide, ha imparato la lezione, infatti parla direttamente con Iahvè, senza intermediari, e campa meglio, a parte il fatto che ormai Samuele aveva incasinato talmente la politica estera di Israele che il povero Davide ha dovuto passare tutta la vita a combattere. Peccato, perché Davide era un buon musicista e un poeta. Suonava la cetra, che nella versione dei Settanta è tradotta κιθάρα, quindi la chitarra, e scriveva salmi; una specie di cantautore. Purtroppo, di canzoni ne scrisse poche, perché doveva combattere in continuazione. Poi non fu mai sereno, anche perché Iahvé gli dava ordini, Davide obbediva, ma poi Iahvè si arrabbiava comunque, dimostrando di non essere cambiato affatto dai tempi dell’Eden, quando fece tutto quel casino per una mela. Probabilmente perché Davide era un brav’uomo e, siccome aveva fatto qualche carognata, tipo quella faccenda della moglie di Uria, la coscienza gli rimordeva e forse il suo Iahvè e la sua coscienza erano la stessa cosa. E finalmente siamo al terzo re, Salomone, figlio di Davide e Betsabea, vedova forzata di Uria, l’ittita. Come indica la radice del suo nome (Shalom in ebraico significa “pace”), Salomone fu un re pacifico, fu l’uomo più sapiente della sua epoca e forse di sempre. Edificò il tempio di Iahvè che, dalla fuga dall’Egitto, 480 anni prima, non era mai stato costruito, fu fecondo autore; a lui sono stati attribuiti, nonostante siano stati scritti secoli dopo la sua supposta esistenza, I proverbi, L’Ecclesiaste, che sono due libri diametralmente opposti, Il Cantico dei cantici, oltre a numerosi salmi. Si dice poi che avesse un avesse un anello che gli permetteva di capire il linguaggio degli animali; sul suo conto sono nate infinite leggende che si sono diffuse nella, e al di fuori, della Bibbia.
Se i primi tre re meritano un capitolo ciascuno, gli altri sono riassunti in un unico capitolo. Un po’ di più ci si sofferma su Achab, nonostante sia più famoso per essere stato il capitano del Pequod, in Moby Dick che per essere stato un re d’Israele. Oltre a Elia, al tempo di Achab c’era anche il mio profeta preferito, Eliseo, noto soprattutto perché fece mangiare 42 bambini, che lo prendevano in giro, da due orse, apparse miracolosamente dalla foresta. Mitico. Finiti i re, Calasso torna al capitolo 12 della Genesi: Abramo e i patriarchi, fino a Mosè e l’esodo. Questa anacronia ha un senso: Calasso inizia il suo racconto quando Israele diventa una nazione; solo allora Israele può inventarsi la sua storia. A Roma è successo lo stesso: prima è diventata un regno, poi è nata la storia della lupa, Romolo e Remo, ecc. e, solo quando è diventata impero, il buon Virgilio ha concepito l’idea del pio Enea nel Lazio e tutto il resto. Da notare che, in questo capitolo, Calasso spesso chiama Iavè Elohim, ma anche questo ha un senso, perché nel libro della Genesi, Dio è denominato Elohim. L’ignoto redattore della Bibbia ha fatto il possibile per rendere l’opera uniforme, ma qualche discrepanza rimane. Elohim, fra l’altro dovrebbe significare proprio “dio” o meglio “dèi”. Non ci metterei la mano sul fuoco, ma il suffisso –im, in ebraico, dovrebbe indicare il plurale. Ovviamente non so l’ebraico: lo deduco dal fatto che le parole ebraiche plurali finiscano con quel suffisso: klezmorim, chasidim, seforim, ecc. Inoltre una delle frasi di Gesù sulla croce “Elì, Elì, lamà sabàchtani” è tradotta concordemente “Dio, Dio, perché mi abbandoni”, quindi se Elì è il singolare è coerente supporre che Elohim sia il plurale. Dunque “al principio gli dèi crearono il cielo e la terra”. Da escludere che Iahvè usasse il plurale maiestatis che coniugherebbe al plurale il verbo, non il soggetto. Calasso va oltre e, soprattutto nel capitolo successivo, ipotizza che Iahvè cercasse il primato fra gli dèi. Il capitolo termina con gli ebrei che popolano l’Egitto, sotto la protezione di Giuseppe e di Faraone.
A proposito di Giuseppe, Calasso nota una cosa alla quale avrei voluto pensare prima io: Giuseppe era un maestro nell’interpretazione dei sogni e perciò divenne il consigliere di Faraone in Egitto. Un altro ebreo all’estero, Daniele, interpretava i sogni di Nabuccodonosor. Nel 1899 un terzo ebreo della diaspora, Sigmund Freud, scrisse a Vienna il suo libro più noto, L’interpretazione dei sogni. Sono passati circa 400 anni, nessuno ricorda più Giuseppe, e gli ebrei sono schiavi in Egitto. Tutti conoscono la storia per aver visto almeno un film,
ma la cosa interessante è quanto dicevo prima: l’impressione che Iahvè cerchi il primato e proprio nella nazione degli dèi (andate al museo egizio di Torino e capirete cosa intendo dire). Più che salvare il popolo eletto, sembra che Iahvè voglia dimostrare che è lui il più abile fra gli dèi. Già nella scelta dei patriarchi Iahvè si era accontentato; nessuno di loro aveva particolari qualità se non quella di obbedire senza discutere. Aveva promesso una progenie sterminata a coppie attempate e senza figli perché le mogli erano sterili. Solo un dio immensamente potente avrebbe potuto realizzare quanto aveva promesso con un materiale umano tanto inetto. Poi c’è la gelosia assillante di Iahvè. Lo dice in continuazione che è un dio geloso. I primi due comandamenti sono: non avrai altri dèi nel mio cospetto e non farti immagini, né sculture per adorarle. Anche se, come nota Calasso, a volte è incoerente; quando dà le istruzioni per costruzione dell’arca dell’alleanza, fa scolpire due cherubini. Non sono forse immagini? Poi, dopo che in uno dei suoi consueti scatti di ira manda i serpenti velenosi a mordere il popolo eletto, ordina a Mosè di fare un serpente di bronzo e metterlo su un palo. Quando si viene morsi basta guardarlo per non morire: di fatto un idolo taumaturgo. Quando Giacobbe fugge dalla Mesopotamia, Calasso insiste molto anche sul fatto che Rachele aveva rubato gli idoli di Labano, suo padre, un gesto che mirava a indebolirlo. Poi c’è il divieto assoluto di sposarsi al di fuori della religione: “Non imparentarti con loro; non dar le tue figliuole ai lor figliuoli e non prendere le lor figliuole per i tuoi figliuoli. Poiché rivolgerebbero i tuoi figliuoli contro di me e servirebbero dèi stranieri; e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi ed Egli vi distruggerebbe subitamente” che Calasso cita in due capitoli diversi. Insomma, più che al monoteismo sembra che Iahvè miri al megaliteroteismo (ammesso che si dica). Tutto ciò avrebbe implicazioni teologiche interessanti, ma noi ci limitiamo al campo della letteratura. Parlando di Mosè, Calasso non poteva trascurare l’ultima opera di Freud L’uomo Mosè e la religione monoteistica nella quale, come è noto, Freud ipotizza che Mosè, padre degli ebrei, fosse stato ucciso dai figli, coerentemente alla sua teoria dell’Edipo. Ipotesi confermata da un oscuro passo di Osea evidenziato dal biblista Ernst Sellin: “Mosè alle Acacie, Shittim, nel santuario del suo Dio e del suo stesso popolo, dopo l’adesione a Baal-Peor, a causa della quale era stato chiamato a penitenza e aveva espiato, era stato subdolamente ucciso“. Se proprio avesse voluto strafare, Freud avrebbe potuto citare il vangelo di Matteo: “E voi dite: se noi fossimo stati ai giorni dei nostri padri, non avremmo ucciso i profeti. In tal modo testimoniate contro voi stessi, poiché siete figliuoli di coloro che uccisero i profeti“. Eppure nel Canone, solo Zaccaria viene lapidato dal popolo, mentre Mosè, sta scritto nel Pentateuco, fu chiamato da Iahvè sul monte di Hor, dinanzi a Bal-Peor per por fine ai suoi giorni. Ma sappiamo anche che la redazione finale della Bibbia è passata da innumerevoli mani che hanno aggiustato quel che gli è parso e che, quindi, sia Sellin che Freud potrebbero aver ragione.
Ed ecco una nuova apparente anacronia: dalla morte di Mosè si torna alla creazione, ma anche questa volta c’è un senso. Prima di morire, Mosè scrisse la Torah, infine radunò il popolo e gliela recitò tutta. Questo porta acqua al mulino di Freud: sicuramente il popolo l’ha ammazzato mentre leggeva il Deuteronomio. La narrazione dell’origine di tutte le cose non differisce dalle altre cosmogonie mediterranee e mediorientali: diluvio, albero della vita, paradiso, leviatano, giorno del riposo; salvo che per due cose: la colpa, che è una caratteristica fondante sia dell’ebraismo che del cristianesimo, e il linguaggio: mentre Gilgamesh e tutte le successive cosmogonie sono scritte in poesia, la Bibbia è scritta in una lingua che nulla concede all’ornato; noi diremmo che è scritta in prosa, come se fosse una vera cronaca.
Non ripasseremo i primi capitoli della Genesi, ma vorrei soffermarmi su una cosa che Calasso non reputa particolarmente rilevante: noi tutti saremmo discendenti di Caino. Noè, l’unico superstite del diluvio era figlio di Lamec, diretto discendente di Caino che sarebbe stato suo bis-bis-bis-nonno. Inoltre anche Lamec si era macchiato di ben due delitti e quindi “Se Caino è vendicato sette volte, Lamec lo sarà settanta volte sette“. (Genesi 4:24). Abbandoniamo per un attimo la Bibbia e guardiamo alla storia dell’umanità: buon sangue non mente.
Dopo la parentesi cosmogonica torniamo alla casa d’Israele che ora si trova a dover patire la seconda cattività, dopo quella egiziana, quella babilonese. Ovviamente è Iahvè che li ha messi nelle mani di Nabuccodonosor a causa della cronica disubbidienza del popolo eletto. Il capitolo inizia con Ezechiele che vede la ruota, delizia degli ufologi che nella ruota hanno immaginato un disco volante. Ecco come mi sono figurata Ezechiele che assiste al prodigio. Notate l’aria perplessa del profeta.
Comunque, ruota a parte, Ezechiele apporta una vera e propria rivoluzione nella cultura ebraica che non è, come verrebbe da pensare, che si può mangiare la carne di maiale, ma che ognuno viene giudicato per i suoi atti. I figli non devono più scontare le colpe dei padri e viceversa “fino alla terza e alla quarta generazione”, la colpa di Adamo non si ripercuote più su tutti i suoi discendenti. Come mai Iahvè non ci aveva pensato prima? Eppure sembra logico: se sono comunque condannato, sia che mio bis-nonno fosse un poco di buono, sia che lo diventi un mio pronipote, chi me lo fa fare di osservare tutte le regole cervellotiche di Iahvè? come diceva Gianni Morandi, ma chi se ne importa.
Se avesse voluto farsi obbedire ci poteva pensare prima.
Comunque, come Iahvè volle, la cattività babilonese finì, gli ebrei tornarono in Palestina e ricostruirono il tempio. Ovviamente gli ebrei che erano rimasti si erano sposati con straniere e ne avevano avuto figli e, altrettanto ovviamente, Iahvè comandò di cacciare mogli e figli “stranieri”. Nel tempio ricominciarono i sacrifici perenni, ossia una vittima al mattino e una alla sera tutti i giorni che Iahvè metteva in terra. A salvare gli agnelli dalla loro triste sorte fu l’imperatore Tito, che nell’anno 70 dell’era volgare distrusse per la seconda volta il tempio e questo fu la fine dei sacrifici cruenti e anche l’inizio della diaspora degli ebrei su tutta la terra. Cosa prese il posto dei sacrifici? Lo studio. Non già la sinagoga, semplice casa di riunione, prese il posto del Tempio, ma la casa di studio. E, a questo punto, le storie narrate nella Bibbia si concludono.
Dopo essere entrati nel dettaglio e aver illustrato i singoli capitoli, passiamo al giudizio complessivo
che non può che essere eccellente. Oltre a raccontare un libro importante per la nostra cultura come La Bibbia con uno stile gradevole e comprensibile a chiunque, il libro di Calasso ha anche un altro pregio che forse l’autore non aveva messo in conto: fa capire coma mai il cristianesimo abbia avuto tutto quello share. Immaginate che sollievo passare da un dio vendicativo e geloso a un dio infinitamente misericordioso, passare da un’infinità di regole contorte all’unica regola di amare il prossimo. Teofrasto, che pure valutava gli ebrei un popolo di filosofi, che per un greco era un gran complimento, riteneva i riti ebraici ripugnanti e primitivi.
Altro grande pregio del libro è una rigorosa elencazione delle fonti, tanto puntuale che sembra che io sappia un sacco di cose; in realtà sono andata semplicemente a consultare le citazioni di Calasso.
Vorrei fare un’ultima osservazione alla quale, giusto per restare in argomento, Calasso potrebbe rispondere come fece Iahvè a Giobbe: “Chi è costei che oscura la sapienza con ragionamenti senza scienza? Deh, cingiti i lombi come una prode e io ti farò delle domande, e tu insegnami”. (Giobbe 38: 2-3) Ovviamente ho dovuto cambiare il genere.
Secondo me, rispetto alle opere precedenti, Calasso è meno disinvolto, meno a suo agio con la materia; non certo perché non la conosca, ma forse perché la mitologia biblica è presa per buona da gran parte dell’umanità, forse perché, bene o male, come tutti noi, e più delle ultime generazioni, ha un retroterra culturale giudeo cristiano. Insomma, a volte dà l’idea di andarci coi piedi di piombo e questo gli fa perdere la straordinaria leggerezza delle Nozze di Cadmo e Armonia. A parte l’impressione epidermica, c’è un piccolo paragrafo, verso la fine del IV capitolo, nel quale si accenna al mito di Europa. Per nove righe il racconto comincia a galoppare assieme al toro di Europa, poi riprende il ritmo solenne dalla processione. Ma è vero che la mitologia biblica è sicuramente meno vivace di quella classica, e che forse il ritmo narrativo è stato studiato accuratamente per adattarlo all’argomento, inevitabilmente, solenne. Webber e Rice sono riusciti a fare un musical dalla storia di Giuseppe,
ma è vero che si tratta di un altro linguaggio.
Fermo restando che stiamo parlando di un’opera di grande valore e che la scelta di trattare a questo modo l’argomento è del tutto plausibile, mi piacerebbe comunque sapere da cosa è stata determinata.
Sono d’accordo con il periodo conclusivo di questa esauriente e simpatica recensione di Irene Pepe. Anche a me piacerebbe sapere perchè l’autore ha scritto un libro come questo che, tra l’altro, ho molto apprezzato.