Una storia d’amore dal risvolto amaro e dal finale che, malgrado tutto, si apre a nuova speranza, questo in sintesi il racconto di Stefania Guerra
Se tutto ciò che è bello diventa Amore amaro? L’amore fra due persone, al suo nascere, sembra sempre una bella favola. L’incanto fatto di attrazione, tenerezza e passione dei primi tempi che piano piano si trasforma in un rapporto solido, fatto di complicità, comprensione e anche tolleranza: tutto questo dovrebbe avvenire nella ‘normalità‘ dei rapporti fra un uomo e una donna che si amano.
Ci sono, purtroppo, dei rapporti amorosi che non mantengono le promesse dell’inizio e che si trasformano in un vero e proprio incubo, dove l’amarezza, la tristezza e l’annullamento dell’uno e la prepotenza dell’altro, mutano quelle belle speranze iniziali, in vero e proprio tormento per chi subisce e si trova ad ‘interpretare’, suo malgrado, la parte della vittima di un carnefice che dice di amarla.
Stefania, nel suo racconto, inserito nella raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi, ci riporta e narra esattamente uno di questi casi. Uno dei tanti episodi in cui un matrimonio che promette amore e gioia, diventa un vero e proprio inferno: un marito–padrone che cambia volto già dalla prima notte di nozze, e una moglie-succube che si autoflagella, si colpevolizza e si annulla, piuttosto che reagire.
Sembra quasi di assistere ad una delle tante notizie di tremenda cronaca vera che spesso sfociano nel delitto più di ‘moda’ degli ultimi tempi, il femminicidio (brutto termine per definire un crimine in nome dell’amore). Stesso cliché, stessa modalità, stesso uomo aguzzino che compensa la sua debolezza e l’incapacità di rapportarsi serenamente con i suoi simili, con la prepotenza, riversata su chi lo ama; e stessa donna che imputa a se stessa colpe e incapacità che non sono sue e… (riflessione estemporanea) mi chiedo perché noi donne, siamo sempre propense a colpevolizzarci e a scusare la prepotenza o la violenza di chi amiamo.
Lo stile di Amore amaro è semplice, diretto, schietto, da vera ‘toscanaccia’, Stefania Guerra, non gira attorno alle parole e non usa architetture stilistiche. Stefania porge il suo racconto con tutta la sua verità e la sua realtà: le immagini, anche quelle più spietate delle botte o dei rapporti sessuali senza un grammo di tenerezza che la protagonista, Margherita, subisce, sono rese e raccontate come se si guardassero ad uno specchio, il lettore assiste ad una verità nuda e cruda, senza scenografie di parole intorno e senza aggiunte di emozioni o sensazioni da parte dell’autrice.
Il finale del racconto appare come la naturale e ‘giusta’ evoluzione, per il riscatto di un amore che Stefania definisce amaro ma che a me è sembrato anche malato, tragico, crudele e distruttivo.
La vita, però, da sempre un’altra possibilità e pazienza se un fine da raggiungere, il riscatto personale di Margherita, fa utilizzare dei mezzi non propriamente leciti. La nascita di una figlia, (non a caso femmina) nell’epilogo, è nuova speranza, è nuovo inizio ma anche frutto e testimone dell’amore che si è dato, è memoria vivente e forse rimorso che difficilmente si potrà cancellare.