Alter ego di Pina Sutera – Seconda parte
Caro iCrewer è venuto il momento di Pina Sutera e Alter ego uno dei racconti presenti nella raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi. In questi giorni, in cui ognuno sta reinventando la propria quotidianità, una storia per riflettere su ciò che siamo, su dove andiamo e su cosa vorremmo veramente
>>> SECONDA PARTE<<<
Sicuramente non aveva peli sulla lingua Lisa ed era decisamente impietosa con quella se stessa così incerta, insicura, insoluta… e Caterina amava e odiava quella Lisa che sbatteva in faccia la verità anche se faceva male. La verità nuda e cruda, senza fronzoli né giri di parole, la verità impietosa che le due facce della stessa medaglia proponevano l’una all’altra in un continuo dialogo e sdoppiamento che dava l’impressione di rasentare la schizofrenia.
I racconti, le poesie, gli scritti vari, le uscivano di getto, la mattina, durante le tante mattine che Caterina passava sola a casa, a tu per tu con le solite faccende. Decideva di mollare tutto, di lasciare perdere ogni cosa e, come in una piccola quanto inutile ribellione, si sedeva in poltrona a guardare il soffitto e a scrivere, inseguendo il filo ingarbugliato dei suoi pensieri assieme a quello di una ragnatela all’angolo del soffitto che puntualmente resuscitava alle sue pulizie.
Stava lì, seduta nel suo angolo preferito, quella mattina girando intorno ad un pensiero, ad un concetto, ad una frase. Lo sfiorava, lo tastava, lo osservava a distanza e da vicino. Era lì, ammassato, avvoltolato su se stesso. Cercava un bandolo, un inizio, mentre Lisa la osservava dallo specchio, con la solita ironia stampata in faccia. Attorno la luce pallida di un sole quasi malato, spuntato quasi per forza di inerzia tra le nuvole, si rifletteva e si spandeva su mobili e suppellettili. Caterina osservava quasi staccata dal reale pareti, mobili, suppellettili e un minuscolo ragno spuntato da chissà dove, tutto contento di aver salvato la pelle e di poter passeggiare sulla parete (hanno una pelle i ragni?). Dovrei alzarmi e interrompere questa passeggiata pensava Caterina, ma il ragno era così sereno mentre scalava il bianco-dorato del muro che lei provava quasi un sentimento di empatia per lui! Zampettava tranquillo verso una meta precisa, lui aveva una meta. O forse no. Magari si accontentava soltanto di camminare sul muro. E per caso avrebbe trovato l’angolino giusto per tessere la sua ragnatela. Forse dovrei interrompere il suo andare, risucchiarlo aspirandolo in un vortice di aria compressa. Potrei essere l’artefice della sua fine. Il destino che si compie. Ma ne Caterina ne Lisa si muovevano dal loro punto di osservazione, lasciando il ragno alla sua esistenza ragnifera. Troverà il suo angolino e tesserà la sua casa.
Mentre i pensieri di Caterina erano sempre lì, raggomitolati su loro stessi, lei li osservava e pure li Lisa li osservava e rideva. Troverò l’inizio, il bandolo, il filo logico? Prima o poi, non ho fretta! A guardarlo a distanza è un groviglio intricato ma una chiave c’è, c’è sempre una chiave, una soluzione. Una chiave che apre cassetti e cassapanche segrete. Da piccola, ricordava, sua madre teneva in angolo della casa, una cassapanca che, rigorosamente, era chiusa a chiave. Caterina si chiedeva il perché ma non diceva niente. Percepiva la gelosia di sua madre per quel posto, dove custodiva i suoi tesori. O almeno così credeva. L’immaginario dei bambini è fervidissimo e lei, dentro la cassapanca, immaginava riposti chissà quali preziosi e magici oggetti. E quando, molto tempo dopo, trovò la chiave e scoprì cosa si celava nella cassapanca, fu pervasa da un senso di malinconica tristezza mista ad una strana angoscia. C’era soltanto biancheria riccamente ricamata, ma incartapecorita e ingiallita dal tempo. Lenzuola, tovaglie, camicie da notte, tesori, tramandati da madre in figlia, per generazioni. Li conservava ancora, ma non li guardava mai. Non sempre è producente trovare la chiave.
Il ragno invece non aveva bisogno di chiavi, tesseva in tondo la sua tela. Filo invisibile attorno ad un punto, in spirale concentrica. Perfette e millimetriche distanze, tramate senza bisogno di metri e misurazioni e il suo tessere attorno ad un punto, è instancabile, geometrico, autosufficiente. Il filo della sua bava, che compie meraviglie ed era sempre lì, gestibile. Era lui che lo teneva fermo con le sue minuscole ganasce di ragno, che lo dirigeva con le zampette pelose (come sarà la pelle dei ragni?). Il ragno non cercava chiavi, non ne aveva bisogno, entrava ed usciva dalla sua ragnatela, sempre sospeso saldamente al filo di bava della sua bocca. Lui aveva il bandolo. Se fossi un ragno, forse potrei averlo anch’io. Oppure no. Forse sarei un ragno senza ragnatela, incapace di tessere fili.
Il suono d’una campana in lontananza la riportò al reale di quella mattina cominciata davvero in maniera strana E quel suono la richiamava al concreto. E il ragno, intanto, lo aveva perso di vista mentre Lisa era sempre nello specchio, intenzionata a restarci.
Caterina scriveva da sempre, scriveva per il semplice gusto di farlo, scriveva per fermare sulla carta i suoi pensieri. Scriveva quando era triste o disperata, quando si sentiva felice o annoiata. Scriveva perché scrivere per lei era terapeutico. E’ un po’ come partorire, e come per il parto, quando la creatura esce dall’utero non appartiene più alla madre ma ha vita propria, così succedeva per quello che scriveva. Le capitava sempre, rileggendo, di non sentire più quello che aveva scritto, come se non fosse più suo: non le apparteneva più. Anzi, Caterina ripensava a tutte le volte che aveva trasferito su carta i suoi pensieri, attraverso un filo d’inchiostro e poi appallottolato il foglio lo aveva buttato fra le cartacce, proprio come si fa quando ci si vuole sbarazzare di qualcosa inutile. Lisa diceva che il suo era un vero e proprio spirito distruttivo e forse era vero.
Scrivere per Caterina era un mezzo, non un fine, un mezzo per srotolare quei pensieri-fili di ragno, che non si ordinavano in una composta ragnatela, ma restavano informi, aggrovigliati, formavano grumi e matasse senza bandolo. Lei scriveva per legittima difesa. Non aveva fini, solo mezzi.
Lisa la guardava, lei così forte e decisa, e sorrideva delle contorsioni mentali di Caterina: per Lisa il bianco era bianco, il nero, nero. Tutt’al più fra i due colori poteva esistere solo una sfumatura di grigio, il resto era solo letteratura e apparteneva a quel famoso romanzo erotico che raccontava di altre quarantanove sfumature di grigio. Era decisa Lisa, sapeva sempre come agire, non conosceva mezze misure e non lasciava nessuna strada da percorrere, se voleva raggiungere un obiettivo e, se non era alla sua portata, girava l’angolo, cambiava strada senza ripensamenti. I suoi fini avevano mezzi leciti o illeciti, ma contava poco se l’obiettivo da raggiungere era importante per lei. Caterina e Lisa, Lisa e Caterina: le due facce d’una stessa medaglia. Due anime alterne nello stesso involucro, divergenti, opposte ma in una sola persona, in continua lotta senza convergenze, senza tregue, in eterno conflitto.
Schizofrenia? Gli psicologi e le loro sentenze dicevano di no, era soltanto un io diviso, forse lacerato, forse traumatizzato. Freud e le successive schiere di terapeuti avrebbero potuto formulare ipotesi, diagnosi e cure ma la verità era lampante per entrambe quella mattina ed entrambe pensavano che una delle due dovesse morire, dare spazio all’altra, far cessare quell’eterno rimbalzo, quell’infinito rimpiattino. Ma quale delle due?
La convivenza non era facile e i conflitti fra Caterina e Lisa spesso dilagavano e si accendevano, altre volte era guerra fredda e senza esclusioni di colpi, fra tesi e antitesi, fra luce e tenebre, sempre in bilico su quella famosa lama di rasoio, dove entrambe avevano imparato l’arte del funambolismo, dell’alternanza, del contrasto. La soluzione migliore era, lo pensavano entrambe, che una delle due doveva uccidere l’altra e seppellirla per sempre. O era possibile un rimpasto, una fusione fra loro per far combaciare perfettamente i margini, per conciliare due anime in continua lotta, dare vita ad una creatura nuova che emergesse dalle ceneri di entrambe come un’araba fenice? L’idea dell’araba fenice le fece sorridere: risorgere dalle proprie ceneri, caparbiamente rinascere da brandelli d’anima, balzando e danzando su cancrene, ruderi informi e fili di ragno aggrovigliati senza bandolo.
Un embrione di vita nuova si andava facendo strada, quella mattina, quasi come una folgorazione, una soluzione, una piccola idea che, come un seme sotterrato, cerca di uscire alla luce del sole per diventare nuova pianta, ricca di foglie e fiori. Un mescolamento, un rimpasto oppure una nuova creatura? Una donna nuova che non avrebbe più parlato con il suo alter ego allo specchio che non avrebbe più riso delle sue paure, delle sue incertezze e neanche delle sue eccessive sicurezze, una creatura che avrebbe abbandonato il filo d’acciaio dei suoi funambolismi, teso sugli strapiombi della sua anima, con la paura di cadere. Senza più il bisogno di imporsi diktat, senza più bonus da guadagnare per vivere, senza fili di ragno aggrovigliati nel cuore.
Riprendersi, doveva trovare se stessa e la sua vita, rallentarla, guardarne lo scorrere, il fluire a ritmo lento, cercando la sua storia nei parallelismi fra passato e presente, nel contesto di una vita non chiesta, ma voluta da chi l’aveva pensata e amata fin dall’inizio. Aveva bisogno di un centro di gravità permanente che non fosse soltanto una canzonetta di un bravo cantautore, ma piuttosto la stabilità, in un’esistenza fino a quel momento decisamente instabile. Doveva ucciderle entrambe e non importava se il mezzo non avrebbe giustificato il fine o se il fine giustificava il mezzo, doveva farlo per vivere e non per sopravvivere, come aveva fatto fino a quel momento. Era stata una scoperta quella mattina e doveva agire al più presto, prima che entrambe tentassero di soffocare quel germe di speranza.
Si mosse decisa, con lo sguardo fermo su entrambe. Decisa finalmente senza paura per la risata di Lisa e lo sguardo triste di Caterina. Anche loro sapevano che era giusto così, era giusto morire.
***
Ho ucciso Lisa e Caterina, le ho uccise per sempre.
Ho impedito che continuassero a farmi male oltre a condizionare la mia esistenza con le insicure sicurezze dell’una e le certe certezze dell’altra. Me lo ripeto almeno una volta al giorno, per ribadirlo a me stessa e per tenerlo a mente.
Il resto, tutto il resto, è da definire.
“e ancora non so se sono un falco, una tempesta o un grande canto”.
(Rainer Maria Rilke)
>>> FINE<<<
A domani con un altro racconto della raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi