Alter ego di Pina Sutera
Caro iCrewer è venuto il momento di Pina Sutera e Alter ego uno dei racconti presenti nella raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi. In questi giorni, in cui ognuno sta reinventando la propria quotidianità, una storia per riflettere su ciò che siamo.
Questo racconto vi farà riflettere su voi stessi. Non indugio oltre, ti auguro buona lettura!
Alter ego
Ci si adatta a baricentri scomodi. Si finisce per trovare una posizione di comodo anche sulla lama di un rasoio. Si diventa perfetti equilibristi, camminando sospesi su un filo d’acciaio, sopra uno strapiombo. L’arte dell’equilibrio su esistenze squilibrate. La perfetta connessione tra il reale e l’immaginario, la chiara compattezza del concreto e il fumoso dissolvimento dell’astratto.
Esistenze in bilico, funambolismi aerei e passi su cammini sottili. Rigirandosi nel letto, l’immagine del funambolo sospeso su una corda d’acciaio, era nitidissima, avvertiva quasi il vuoto sotto i piedi ma lo sguardo era rivolto verso altre altezze.
Era di nuovo mattina, di quelle mattine livide, in cui l’alba si confonde col crepuscolo e nel dormiveglia si confondono e omologano entrambi. Alzarsi e cominciare, era l’imperativo categorico. Le solite corse, i soliti impegni, esserci, era il solito imperativo categorico.
Alzarsi. Se lo impose. Era maestra nell’arte di dare ordini. Aveva sperimentato l’arte del comando, soprattutto verso se stessa. Si sentiva, in certi giorni, un umanoide perfettamente programmato a scadenza precisa: sveglia ad ora stabilita e poi via allo start, si parte. Girotondo di cose da fare, solite affabili parole con altri umanoidi, perfettamente programmati. Come lei. L’esistenza e il suo fluire assumeva l’aspetto di un giochino elettronico, con passaggi obbligati e scadenze da assolvere. E se sei brava, se riesci, accumuli bonus e punti da conservare, lei di bonus avrebbe potuto farne il pieno, le riusciva semplice guadagnarseli.
Lo specchio le rimandò un’immagine sulla quale preferì sorvolare ma dedicò ugualmente un sorriso a quella se stessa che, di rimando, sorrideva ironica allo stesso specchio. Improvviso e repentino riaffiorò il ricordo di una cagna dagli occhi tristi che aveva raccattato dalla strada e adottata. Bestia di libere corse in liberi prati, di sfrenati inseguimenti e latrati urlanti su strade urbane ed extraurbane, ad autovetture che transitavano inconsapevoli. Si era adattata, la cagna, accettando il giogo del collare, in cambio di una carezza e di una ciotola piena. Ma gli occhi, gli occhi conservavano impressi a fuoco vivo gli spazi che aveva barattato. Forse anche la cagna dagli occhi tristi conosceva l’arte del funambolismo e chissà quante volte aveva camminato su una fune sospesa nell’aria.
Si scosse da quella specie di torpore che la prendeva quando le sue elucubrazioni mentali avevano il sopravvento. Si alzò e, guardando ancora nello specchio, la rivide: lei, Lisa. Lisa appariva sempre nei momenti in cui decideva, eccola ancora, sempre lei. Con quel sorriso bianco fra l’ironico e il compassionevole, libera e bella come pubblicità comanda e la risata grassa che le faceva sobbalzare il petto se rideva di gusto. E spesso Lisa rideva di gusto, soprattutto se si trattava di metterla in ridicolo. Pungente, arida, cinica come qualcuno la chiamava spesso. Già, qualcuno. I “qualcuno” di Lisa. Più di uno. Ma ogni volta era qualcuno, qualcuno che entrava nella sua vita, ne diventava il centro, poi ne usciva e tornava ad essere un personaggio indefinito che non lasciava traccia.
Lisa era una conquistatrice seriale, non cercava gli uomini, erano loro a trovarla, a coinvolgerla nelle loro giostre sentimentali, le capitavano, lei saliva in quella giostra, quasi incapace di dire di no, per un giro e poi ne scendeva, senza rimorsi, senza segni nel cuore, se non quelli che lasciava. Se esistesse una reincarnazione, Lisa sarebbe stata una di quelle donne che nei locali più malfamati di una qualsiasi periferia del mondo o nei salotti chic della gente più per bene avrebbe trovato il suo posto e un uomo, forse più di uno, pronto a soddisfare ogni suo desiderio. L’arte della seduzione le era congenita e probabilmente lei non lo sapeva neanche.
La sua testa era bella, pensava Caterina guardandola, era bella per come viveva, per come pensava, per come affrontava di petto la vita, già, con il seno che aveva poteva permettersi anche quello, continuò a pensare, sorridendo, Caterina.
E quella mattina Lisa ammiccava nello specchio, da tempo non succedeva, Caterina la guardava e non sapeva se mettersi a ridere anche lei o sentirsi un po’ offesa: Lisa era speciale in un certo senso: era l’altra lei. Un’altra lei opposta e divergente, l’altra faccia di quella medaglia di vita in cui si sentiva fuori posto, ovunque e a prescindere. Come se il mondo non avesse un posto, né per lei né per Lisa. La differenza era che una aggrediva la vita, l’altra la subiva. Rise, lo fecero insieme, quella risata contagiosa era un modo di non prendersi troppo sul serio, per sdrammatizzare. E Caterina ne aveva proprio bisogno.
Una vita non propriamente facile la sua, fatta di sacrifici, di rinunce, una vita in secondo piano. Era sempre un gradino sotto le priorità altrui. Figlia unica di genitori che avevano perso tre figli piccolissimi, Caterina la sopravvissuta, la reduce, come diceva Lisa, sentiva il dovere di esserci per loro, esserci anche per quei figli che avevano perduto, doveva esserci ed incondizionatamente. E c’era stata, c’era stata fino alla fine, fino alla morte di entrambi. Era stata per tanti anni la madre di sua madre e di suo padre. Una storia come tante, quella di diventare genitore dei propri genitori, quando gli anni incombono con tutto il loro peso. Aveva visto sua madre morire lentamente, in quattro mesi di dolore e di piaghe da decubito. Aveva curato quelle piaghe e sentito sulla sua schiena, quel dolore che la madre sembrava non sentire più. Era stato solo suo quel dolore, le si era conficcato nell’anima per sempre: dalla mattina in cui aveva trovato il sonno di sua madre diventato eterno, scivolato nella morte, silenziosamente. Non aveva mai trovato parole quel dolore ma le stringeva il cuore, ogni volta che Caterina ripensava a sua madre.
Aveva curato e coccolato suo padre, rimasto vedovo, come un bambino e come tale, lui dipendeva da lei per tutto: fino a quando un infarto improvviso lo aveva strappato alla vita, in soli venti maledetti minuti, in un pomeriggio di maggio. Aveva sentito la morte quel giorno mentre stringeva fra le braccia il padre che moriva e lui l’aveva accarezzata lieve sul viso, con il suo ultimo respiro. E, in quel momento Caterina aveva capito che non è così brutto morire, è lieve, come quella carezza respirata sul suo viso. Anche quella morte, però, era diventata la morte di una parte di lei. E anche quella si sarebbe portata dentro per sempre. Lisa sapeva, conosceva, c’era stata anche lei con Caterina, in ogni attimo, ma riusciva a mantenere il giusto distacco da tutto, riusciva a gestire ogni emozione come se non le appartenesse e poi, poi il passato era passato, amava ripetersi con un’alzata di spalle. La morte non è che la naturale conclusione della vita.
Una cosa che a Caterina dava gioia era scrivere, Lisa ne rideva e spesso la prendeva in giro; non aveva mai fatto leggere niente a nessuno, un po’ per timidezza, un po’ perché pensava di valere poco come scrittrice… “di scrittori se ne incontrano in ogni angolo e figuriamoci a chi cazzo dovrebbe interessare ciò che scrivo io”. Malgrado la timidezza aveva un’ironia ed un’autoironia davvero impietosa e pungente e le parolacce erano una specie di contorno, ogni tanto, alla sua ironia.
Girando lo sguardo intorno alla stanza, notò che aveva lasciato i fogli del suo ultimo racconto sul comodino, staccò gli occhi dallo specchio, dove ancora Lisa la guardava ferma e canzonatoria. Prese i fogli, lesse qualche riga ignorando la risatina di Lisa, e pensò che avrebbe cestinato senza pietà anche quelli. Uno in più. Del resto scrivere le serviva essenzialmente per sfogarsi, non aveva pretese letterarie. Lisa, con ancora il sorriso stampato sulla faccia, la guardò dallo specchio e fissandola dritto nei grandi occhi disse a quella se stessa: «Guarda che non è malaccio, sembra pure originale sto racconto. Dovresti sentire un parere esterno, farlo leggere a qualcuno, così, fosse solo per vedere l’effetto che fa.» Caterina la guardò e con una smorfia stampata sulla faccia rispose: «Si guarda, stanno aspettando proprio me. La narrativa italiana sta aspettando solo me per avere la svolta decisiva.» E questa volta fu lei a ridere di cuore.
Lisa alzò le spalle: «Sei la solita disfattista» disse, «neanche ci provi a smuovere le cose, Hai davvero la sconfitta dentro. Ma smettila, no? Buttati. Provaci. Sempre chiusa nel tuo guscio con le tue elucubrazioni mentali. Mamma mia e che è!»
>>>FINE PRIMA PARTE<<<
A domani con il finale di Alter ego