Quello delle Indian Residential Schools non è un argomento molto conosciuto in Italia – oserei dire quasi per nulla – ed è saltato agli occhi dei più soltanto all’inizio di questa settimana, quando Papa Francesco, durante la sua visita in Canada, si è formalmente scusato per il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica canadese in quest’orrore.
Per dare una prima, sommaria, definizione – che tra poco amplieremo – di questi isitituti, possiamo dire che si trattava di collegi d’isituzione governativa, ma inizialmente gestiti dagli esponenti di varie Chiese, che i bambini indigeni erano obbligati a frequentare fino al raggiungimento della maggiore età.
Lo scopo di queste scuole non era tanto diffondere insegnamenti, ma cancellare il retaggio culturale delle popolazioni indigene canadesi – e con esso l’identità di ogni individui che vi si riconosceva. I molti popoli autoctoni del Canada sono suddivisi in tre macro-gruppi: le Prime Nazioni, tradizionalmente stabilite nella parte più meridionale del Paese; gli Inuit, abitanti delle regioni artiche; e i Métis, di discendenza mista tra indigeni e occidentali, e stabilitisi nelle zone più occidentali.
Giusto per chiarezza, con assimilazione culturale s’intende un processo, spesso forzoso, messo in atto da una parte nei confronti di un’altra – spesso è il vincitore a imporla sul vinto – per far sì che si realizzi un’omogeneità culturale. Si procede quindi al cambiamento di nomi propri, alla proibizione di praticare riti e usanze tradizionali e di parlare la propria lingua nativa. La storia è piena di esempi del genere, ma per rimanere al secolo scorso, oltre alle Indian Residential Schools, possiamo prendere in considerazione l’opera d’itanializzazione svoltasi in Trentino-Altoadige durante il Fascismo; o quella di nipponizzazione che ha avuto luogo in Corea, dopo l’invasione giapponese.
Indian Residential Schools: un mezzo di genocidio culturale
Prima di inziare a parlare nel dettaglio dei collegi, ho deciso di riportare una citazione tratta da La memoria del samurai di Natasha Pulley, che credo racchiuda perfettamente la visione euro-occidentale di culture differenti (vorrei poter usare il passato, ma purtroppo non sia ancora possibile):
“Gli uomini del suo clan sono ancora…?”
“Gli uomini della mia casa sono ancora qui, sì.” disse Mori dolcemente. Sorrise. “Clan. Chi fu quel tale che, arrivando qui, disse che il Giappone era tale e quale alla Scozia?”
Valker quasi rise. […] “Casa come… Casa Tudor?” […]
“Esattamente. Noi abbaiamo Casa Mori, Casa Shimazu. È la stessa cosa.”
Valker abbassò lo sguardo […]”Casa. È meglio, vero? Perchè diciamo clan?”
Mori gli strinse le mani. […] “Credo” disse, con estrema dolcezza, “sia lo stesso motivo per cui i trimarani da guerra polinesiani si chiamano canoe, mentre la versione vichinga, grande la metà ed efficace la metà, si chiama nave lunga.”
Tornando alle Indian Residential Schools, la loro origine si può ricondurre all’Indian Act, emanato dal Governo canadese nel 1876 e più specificatamente alla sua modifica del 1927, che consentiva allo Stato d’intervenire anche all’interno della sfera privata, con lo scopo di garantire l’assimilazione culturale delle popolazioni indigene. Ciò diede alle scuole residenziali, che avevano cominciato a diffondersi a fine Ottocento, la spinta per diventare una rete che nei momenti di massimo splendore collegava centotrentadue istituti (sovrapopolati e sottofinanziati).
Ogni bambino indigeno era obbligato a frequentare queste scuole, anzi, spesso era prelevato con la forza da casa sua e portato a centinaia di chilometri di distanza. Maschi e femmine non avevano pressocché nessun contatto, men che meno se fratelli, in modo da rescindere più legami familiari possibili.
Sebbene lo scopo dichiarato fosse quello di accresce la cultura delle popolazioni indigene, il cui patrimonio di tradizioni era considerato arretrato, i bambini passavano pochissimo tempo a studiare, raggiungendo un livello di conoscenze equivalente a quello elementare, e ristretto ad ambiti specifici: quello delle faccende domestiche per le ragazze; quello dei lavori manuali, come agricoltura, falegnameria e simili per i ragazzi. Il resto del tempo era trascorso come manodopera minorile forzata non retribuita all’interno del collegio stesso, rassettando, facendo le pulizie, manutenzione o lavorando nei campi.
Le regole a cui i bambini erano sottoposti erano ferree, e se infrante comportavano punizioni severe e imprescindibili. Venivano tagliati loro i capelli, tradizionalmente portati lunghi per ragioni religiose; era proibito loro di parlare nella lingua nativa della propria tribù, anche quando era l’unica che conoscevano, pena il venire trafitti sulla lingua con degli aghi. I bambini non venivano chiamati con il loro nome proprio, ma con numeri, o con un nome occidentale. Abusi fisici, sessuali, psicologici, malnutrizione, stenti, condizioni igenico-sanitarie altamente preoccupanti e conversione forzata erano all’ordine del giorno.
Si stima che circa centotrentacinque mila bambini siano passati per le Indian Residential Schools, e che a migliaia vi siano morti.
L’ultima Indian Residential Schools ha chiuso nel 1996 (l’altro ieri, dal punto di vista della Storia), e poco alla volta le ferite culturali e personali stanno cominciando a rimarginarsi, sebbene praticamente ogni individuo indigeno dell’ultimo secolo sia stato sottoposto a rimozione forzata e cancellazione delle proprie origini, lasciato così senza basi per costruire la propria vita e la propria famiglia. Senza contare che alcuni comportamenti razzisti e discriminatori messi in atto da parte delle autorità sono in uso ancora oggi.
Il Governo canadese ha chiesto formalmente perdono alle comunità indigene nel 2008, ha istituito la Truth and Reconciliation Commission, che si occupa di raccogliere testimonianze, e sta stanziando miliardi di dollari a ogni sopravvissuto delle scuole residenziali, ma la strada è ancora lunga.
Qualche consiglio di lettura
Per questi consigli di lettura, ho preferito sacrificare la fruibilità, in favore dell’attendibilità (non che in italiano io sia riuscita a trovare alcunché), e quindi i libri che sto per citarti sono in lingua inglese.
Puoi approfondire la questione tramite: Notes on A History of the Indian Residential School System in Canada di Georges Erasmus; Resistance and Renewal: Surviving the Indian Residential School di Celia Haig-Brown; Indian Residential Schools: The Nuu-Chah-Nulth Experience del Concilio tribale dei Nuu-chah-nulth e Report of the Royal Commission on Indigenous Peoples, Volume 1: Looking Forward, Looking Back. Chapter 10, “Residential Schools” della Royal Commission on Indigenous Peoples.
Mi è stato molto utile consultare anche la pagina di Indigenous Foundations riguardo le Indian Residential Schools.