“Piacere, sono…” è la prima frase che pronunciamo quando ci apprestiamo a fare una nuova conoscenza. Già da questo piccolo enunciato potrebbe essere chiara l’importanza del nome.
Una parola che ci identifica, al cui suono ci voltiamo, o abbiamo una qualche reazione. Un termine che, in molti casi, i nostri genitori hanno scelto per noi e che negli anni può arrivare a essere ricollegato indelebilmente la nostra persona, con tutti i sui pregi, i suoi difetti e le sue sfumature. Si tratta del modo migliore per richiamare l’attenzione di qualcuno, perchè chiamare per nome – invece di un più generico “scusami”, “senti”, “ehi” – dimostra non solo che si è prestata abbastanza attenzione da ricordarlo, quel nome, ma che si sta rivolgendo la parola proprio a quella persona.
Al contrario, però, l’importanza del nome potrebbe essere sinonimo di peso, di restrizione, di catene. Potrebbe ricordare periodi della vita che preferiremmo dimenticare, persone di cui vorremmo cancellare il ricordo. Potrebbe non rappresentare il nostro vero io, non corrispondere all’identità che noi scegliamo per noi stessi, invece di accettare quella che ci è stata data. Ed è in questo momento, allora, che diventa indispensabile potersi scegliere un nuovo nome, un termine che sentiamo più giusto, adatto, migliore.
In Italia, cambiare nome è possibile ma, soprattutto in alcuni casi, comporta una lotta non da poco con la burocrazia (se desiderassi approfondire, ti consiglio il secondo numero della rivista de Il Post Cose spiegate bene. Questioni di un certo genere). Ciò che, invece, probabilmente non abbiamo preso spesso in considerazione, è la necessità di cambiare il nostro nome perchè difficile da pronunciare, e scegliere qualcosa di più accessibile a chi ci circonda. Spero, invece, che non sia mai capitato – nella storia recente, perchè sappiamo che non si può dire lo stesso del passato, anche recente – di vedersi strappare a forza quel nome, perchè troppo complesso o non conforme.
L’importanza del nome e del poterlo cambiare: una particolare usanza cinese
In una delle prime scene del libro Babel di R. F. Kuang, pubblicato da Mondadori, il protagonista, un bambino cinese di neanche dieci anni, viene caldamente invitato – leggi, costretto – dal suo benefattore a scegliere un nome inglese da utilizzare da quel momento in poi. Il nome affidatogli dalla madre, quei suoni che erano sempre stati intimamente suoi, improvvisamente non sono più appropriati. L’importanza del nome è anche questo: definisce la posizione all’interno del contesto sociale. E nell’Inghilterra dell’Ottocento, per quanto fantastica, avere un nome cinese non equivaleva a un prestigio.
Sebbene i tempi siano cambiati, questo retaggio culturale, frutto di un’imposizione esterna che ha portato con sé sottomissione e perdita di potere per un Paese che per millenni si era trovato in una posizione dominante, è rimasto. Non è raro, infatti, che una persona cinese che si trovi nella situazione di interfacciarsi con l’estero, decida di utilizzare un altro nome, spesso scegliendo tra quelli della cultura con cui sta entrando in contatto.
Se, da una parte, ciò può essere un modo per creare un legame con il Paese di cui si sta, ad esempio, studiando la lingua, o con cui si hanno contatti lavorativi, dall’altro può anche essere una soluzione all’udire pronunciare spagliato il proprio nome. Non escludo, però, che le ragioni storiche giochino ancora un ruolo, per quanto marginale e di secondo piano.
L’importanza del nome, soprattutto quando viene strappato: i disc number Inuit
Completamente diverso è, invece, il caso della popolazione Inuit (una popolazione nativa americana stanziata tradizionalmente al nord del continente) che abita i territori all’interno dei confini dello Stato canadese.
Non dissimile dalla situazione cinese, i commercianti occidentali di pellicce o i missionari che entrarono in contatto gli Inuit tra il XIX e il XX secolo avevano l’abitudine di assegnare loro un nome più “occidentale”, in quanto trovano troppo complessi da pronunciare i nomi inuit. Tuttavia, fu soltanto durante gli anni Venti del Novecento, quando i territori inuit iniziarono a rientrane nella sfera di controllo delle autorità canadesi, che s’iniziò a discutere della problematica legata ai nomi tradizionali.
Per le autorità, i nomi inuit – dal grandissimo valore tradizionale e culturale – non solo risultavano complessi da pronunciare, ma anche da scrivere, visto che la realizzazione fonetica può variare anche di molto, rispetto a quella grafica. Gli Inuit, inoltre, non avevano un cognome, nel senso occidentale del termine.
E come venne deciso di porre rimedio a questa difficoltà burocratica? Assegnando a ogni Inuk (singolare di Inuit) un codice alfanumerico che lo identificasse. Dal 1941 al 1978 ogni bambino ricevette, alla nascita, un discetto di pelle o di tessuto pressato rosso, con il numero identificativo su un lato, e lo stemma del Canada sull’altro.
Il disco, chiamato ujamik in lingua inuit (ujamiit al plurale) doveva sempre essere portato con sé, in quanto era indispensabile per totalità della azioni ufficiali, dalla richiesta di cure mediche, alla registrazione dei risultati di caccia. Nella quasi maggioranza dei casi, poi, le autorità si riferivano ai cittadini Inuit, gli unici a essere stati sottoposti a questo trattamento, chiamandoli solamente con il loro codice numerico, che in qualche caso finì per diventare il nome proprio.
Fu soltanto negli anni Sessanta, quando sempre più voci ne sottolinearono le caratteristiche deumanizzanti e la completa superficialità che era stata dimostrata nei confronti dell’importanza del nome proprio, che questo sistema venne messo sotto inchiesta. Dagli anni Ottanta in poi venne introdotto un sistema identificativo per cognome anche per la popolazione Inuit canadese.