Per secoli le divinità hanno parlato agli uomini attraverso voci di donne, donando loro visioni profetiche e incanalando il potere in loro. Basti pensare alla Pizia, l’oracolo di Delfi, tramite la cui bocca parlava Apollo, o la Sibilla cumana, anch’essa portatrice della volontà del medesimo dio greco. Ecco, anche gli dei giapponesi hanno da sempre manifestato la propria presenza attraverso le donne, tramite le miko e le itako.
Si tratta di figure ancora oggi diffuse, sebbene i loro doveri siano cambianti nel tempo, e, in alcuni casi, stiano cadendo in disuso.
Tuttavia, è innegabile che vi sia sempre stato un canale preferenziale tra divino e femminilità. Ne è la prova un mito narrato nel Kojiki – la più antica cronaca di eventi (in parte mitici, in parte reali) scritta in giapponese (o in quella che si può considerare come una prima versione della lingua scritta) – da cui non solo viene fatta derivare l’origine delle arti dello spettacolo, ma anche l’importanza della figura femminile nell’intercezione divina.
In particolare, la parte del mito della caverna che più è interessante per quanto riguarda la nascita delle pratiche sciamaniche di miko e itako, è il brano in cui la dea Ame-No-Uzume, danzando a seno scoperto e facendo un gran baccano, incitando le altre divinità a imitarla, invoglia la dea Amaterasu, divinità solare che si era nascosta nella grotta, a uscire allo scoperto e tornare nel mondo. Grazie a ciò, il sole brilla di nuovo nel cielo e l’ordine viene ristabilito.
Sebbene il fine ultimo del mito sia quello di dare una spiegazione al fenomeno dell’eclissi, la danza di Ame-No-Uzume contiene già molti elementi che saranno presenti per secoli anche nei rituali eseguiti da miko e itako.
Se ti dovesse interessare approfondire questo argomento anche in una chiave più narrativa, ti consiglio Namamiko. L’inganno delle sciamane di Fumiko Enchi.
Le miko: sacerdotesse del santuario shintoista
Il termine miko (巫女) indica, ancora, oggi, le ragazze che lavorano nei santuari shintoisti. In passato si trattava spesso di figlie si sacerdoti shintoisti o di giovani che prestavano servizio, mentre ora sono principalmente volontarie o lavoratrici part-time. Ciò che è rimasto costante è il loro abbigliamento: un tradizionale tipo di gonna-pantalone che prende il nome di hakama, di uno sgargiante color rosso, una tunica bianca e ai piedi dei tabi, i calzari tradizionali, anch’essi bianchi.
Nei tempi antichi, la miko rappresentava un collegamento con la divinità, che la possedeva quando la giovane entrava in uno stato di trance e per sua bocca dava voce alla propria volontà. Oltre a ciò, ella aveva il compito di esibirsi in danze rituali, servendosi anche di specifici oggetti sacri, per richiamare il dio, il kami, del santuario e condurlo verso quella che sarebbe stata la sua dimora per il tempo della festività – spesso una stanza interna al luogo di culto, accessibile solamente ai sacerdoti.
C’erano poi funzioni di sostegno alle quotidiane attività del santuario, nonché di assistenza ai servizi e ai rituali. Sebbene la miko potesse fare le veci del sacerdote maschio nel caso in cui non fosse reperibile nessun uomo, i due ruoli non erano equiparati. Tanto più che nei tempi antichi la posizione della miko era vincolata al suo essere vergine e pura.
Fortunatamente oggi non è più così, anche se spesso capita che, una volta sposate, le giovani smettano di prestare servizio al santuario. Un’eccezione sono coloro che insegnano le danze tradizionali, che continuano a operare anche successivamente alle nozze.
Itako: le sciamane del Tohoku
La figura della itako, invece, era particolarmente diffusa nella regione del Tohoku, la zona a nord-est dell’isola principale dell’arcipelago giapponese, Honshū. Si trattava di sciamane, veggenti, donne che incanalavano il potere della loro divinità protettrice. Tuttavia, siccome la possessione non avveniva in uno stato di trance, alcuni studiosi sono scettici nel considerarle figure sciamaniche.
La sostanziale differenza tra una miko e un’itako è che quest’ultima era una ragazza cieca. Sebbene a dare inizio alla tradizione pare siano state le mogli degli yamabushi, gli asceti delle montagne, in seguito quella della sciamana fu l‘unica professione possibile per donne non vedenti, che quindi non potevano lavorare né in agricoltura né essere utili nei lavori domestici. La società dell’epoca non concepiva, infatti, che un individuo potesse non essere utile alla comunità: tutti aveva un ruolo da svolgere, l’immobilità non era contemplata.
Per questo, nel caso in cui la famiglia della futura itako non avesse le possibilità economiche per finanziare l’onerosa istruzione della bambina – solitamente iniziata prima del primo ciclo mestruale, in quanto si riteneva che la fanciulla fosse più recettiva agli insegnamenti e che fosse più facile per la divinità possederla – l’intero villaggio partecipava a sostenere la spesa. L’itako avrebbe ripagato il suo debito alla fine dei tre anni di apprendistato, quando sarebbe diventata indipendente dalla sciamana adulta incaricata della sua istruzione.
L’identità della divinità protettrice della ragazza sarebbe stata nota soltanto nel momento dell’iniziazione, attraverso uno di due possibili metodi: l‘itako ne avrebbe pronunciato il nome prima di svenire; oppure, facendo scorrere un bastone rituale sopra dei foglietti, sarebbe rimasto attaccato solamente quello con il nominativo del kami presente. Da quel momento in poi l’itako sarebbe stata sposata con quella precisa divinità, e sebbene fosse possibile per lei prendere marito terreno, per così dire, si sarebbe trattato di una cerimonia di secondaria importanza.
Tuttavia, la figura della itako è andata incontro a un costante declino di prestigio nel corso degli anni. Un primo motivo è sicuramente collegato alle maggiori possibilità d’istruzione ed educazione anche per le ragazze non vedenti. Inoltre le itako sono sempre rientrate tra le categorie di lavoratori emarginati dalla società, in quanto in contatto con elementi considerati taboo. A ciò si va ad aggiungersi la stretta repressiva attuata durante il periodo Meiji (1868-1912) nei riguardi di alcune tipiche credenze popolari.