Caro iCrewer continuiamo il nostro viaggio intorno al mondo alla scoperta della letteratura di una delle terre più affascinanti e misteriose di tutte… l’India!
Quando penso all’India il primo posto che mi viene in mente è il Darjeeling, chissà perché, forse per via del bellissimo film di Wes Anderson Il treno per il Darjeeling. Immagino enormi distese deserte, piantagioni verdissime che si estendono a perdita d’occhio, città coloratissime e il rumore assordante dei mercati, sento il profumo dolcissimo del tè, che lì fanno con copiose dosi di zucchero. L’India è sicuramente uno dei paesi più affascinanti per noi occidentali, tutti conoscono lo splendido tempio d’oro o hanno presente la bellezza di città come Jaisalmer, con le sue abitazioni color sabbia, o come Dehli, ricca di musei e splendide moschee. Forse, però, in pochi conoscono la sua letteratura, che vale sicuramente la pena approfondire.
La letteratura indiana è, di gran lunga, la più antica del mondo. I primi scritti vedici e i due poemi epici Mahābhārata e Rāmāyaṇa sono stati compositi circa 2000 anni fa. Bisognerà aspettare altri otto secoli per leggere Gilgamesh; dopo altri otto secoli sono stati scritti i primi testi cinesi e greci, ovvero Iliade e Odissea, e ci sono voluti altri tre secoli per avere La Bibbia che, quindi, dista ben 1600 anni dai Veda. Quando Alessandro invase l’India, i filosofi greci al suo seguito, ossia le menti più brillanti dell’occidente, rimasero immensamente impressionati dalla saggezza dei “gymnosofisti”, come loro chiamarono gli yogi indiani. Infine, l’India ha le caratteristiche di un continente; in India ci sono ben 22 lingue riconosciute, tutte con una loro letteratura. Per avere un’idea: nell’intero continente europeo ci sono 24 lingue.
Descrivere la letteratura indiana in poche migliaia di parole sarebbe un’impresa da cialtroni, quindi per avvicinarci un po’ alla sua infinità, quantità e varietà di scritti, ci limiteremo a suggerire alcune suggestioni che giudichiamo significative, sapendo fin da ora che trascureremo nomi importantissimi.
Mahābhārata
La prima opera che vogliamo segnalare è il Mahābhārata. Abbiamo accennato all’Iliade e alla Bibbia, ebbene, il Mahābhārata è l’Iliade e la Bibbia indiana, nel senso che contiene sia la narrazione delle guerre fra le popolazioni indiane, sia la teogonia induista. Immagino che già molti si chiederanno “Ma che c’entra La Bibbia?”; La Bibbia è libro più conosciuto e meno letto del mondo occidentale. In realtà della Bibbia si conoscono due storielline della Genesi, la fuga dall’Egitto, Davide e Golia e poco altro. Il profeta Ezechiele viene confuso col nemico dei tre porcellini e il profeta Malachia col gatto di Paperino. In realtà La Bibbia è una cronaca delle guerre che ha sostenuto il popolo ebraico per impadronirsi della Terra Promessa. La parte teogonica è molto più povera e monotona rispetto a Iliade e Mahābhārata, ma dei molti danni del monoteismo, se mai ne parleremo, sarà in altra sede. Il Mahābhārata è scritto in sanscrito che corrisponde, grossomodo, a quello che il latino fu per l’Europa; è composto da molti libri dei quali ho avuto modo di leggere solo la Bhagavad Gita, che sarebbe la cronaca di un’epica battaglia, durante la quale il dio Krshna consiglia l’eroe Arjuna sul modo di condurre la guerra, ma soprattutto su come concepire la vita. Questo libro era molto diffuso negli anni ’70 perché era il testo sacro per eccellenza degli Hare Krshna, ossia la religione professata da George Harrison. Mio padre, in una delle sue frequenti crisi mistiche, emulo dei Beatles che andarono in India dal Maharshi Mabesh, si recò al tempio romano degli Hare Krshna, dove acquistò la Bhagavad Gita con l’intento di diventare un illuminato. In realtà, al pari di Ringo Starr, dopo appena tre giorni si ruppe le scatole e se tornò via, portandosi appresso la Bhagavad Gita, che mantiene ancora un posto privilegiato nella sua biblioteca e nel suo cuore. Trascriverò alcune brevi parti del poderoso libro per dare un’idea della somiglianza con l’Iliade e della poesia che lo permea dall’inizio alla fine.
“In quel momento Bhishma, il grande e valoroso antenato della dinastia dei Kuru, padre dei combattenti, soffiò con forza nella sua conchiglia che risuonò come il ruggito di un leone, allietando il cuore di Duryodhana. Allora le conchiglie, i flicorni, i corni, le trombe e i tamburi si misero a risuonare e le loro vibrazioni confuse provocarono un grande tumulto. Nell’altro campo, in piedi sul loro maestoso carro attaccato a cavalli bianchi, Krshna e Arjuna soffiarono nelle loro conchiglie divine. Krshna soffiò nella sua conchiglia, Pancanjanya, e Arjuna nella sua, Devadatta; Bhima, il mangiatore vorace dalle imprese sovrumane, fece risuonare Paundra, la sua terrificante conchiglia“.
Vorrei far notare come anche nella Bhagavad Gita, come nell’Iliade, la presenza degli epiteti: “Bhima, il mangiatore vorace” e che le conchiglie hanno un nome, come la spada di Orlando. È consolante sapere che l’epica è universale. Questi sono, invece, gli ammaestramenti di Krshna:
“Il saggio non si lamenta né per i vivi, né per i morti. Mai ci fu un tempo in cui non esistevamo, Io, tu e tutti questi re; e mai nessuno di noi cesserà di esistere. All’istante della morte, l’anima prende un nuovo corpo, così naturalmente come essa è passata, nel recedente, dall’infanzia alla giovinezza, poi alla vecchiaia. Questo cambiamento non turba chi è conscio della propria natura spirituale”. Chiara allusione alla credenza nella metempsicosi nella religione induista.
Rudyard Kipling e Rabindranath Tagore
Facciamo un salto di poco meno di quattro millenni ed eccoci alla letteratura angloindiana, ossia nella lingua degli inglesi invasori. Impossibile non pensare a Rudyard Kipling e al suo Il libro della giungla. A dire il vero Kipling è un autore inglese a tutti gli effetti, ma è interessante il suo sguardo sul mondo indiano. Si sente che è quello dell’europeo colonizzatore, ma è, tuttavia, attratto da un mondo esotico e affascinante nel quale è facile perdersi senza voler ritrovare la strada di casa. Se vogliamo un esempio vero di letteratura angloindiana dobbiamo riferirci al premio Nobel per la letteratura Rabindranath Tagore. Tagore era, in realtà, uno scrittore in lingua bengali. Figlio di un Maharshi, quindi di un “saggio”, un illuminato, una guida spirituale di grande virtù, e questo si riflette in gran parte della sua poesia, nella quale si sente fortissima l’influenza religiosa. Religione, ovviamente, vista con l’ottica orientale, fatta di comunione spirituale con l’Assoluto, più che di esteriorità e riti, come quella occidentale ma, allo stesso tempo, il Maharshi era un profondo conoscitore delle due religioni monoteiste più diffuse, islamismo e cristianesimo e credeva in una sorta di fusione di tutte le fedi. Il dio delle poesie di Tagore è senz’altro uno, ma la base teologica è orientale, con una certa affinità al buddhismo. Tagore, invece, non amava particolarmente l’induismo, più che per il politeismo per la rigida divisione in caste che, di fatto, impedisce la crescita, spirituale e materiale, dell’individuo. Oltre che poeta, Tagore fu autore di drammi storici e mitologici dei quali fu anche interprete. Fu attivista politico, quando l’India cercava di scrollarsi di dosso il dominio britannico. Era già una figura preminente nel Bengala, ma poco conosciuto nel resto del mondo. Poi, nel 1912, cominciò a tradurre in inglese le sue poesie, in particolare la versione inglese di Gitanjali (Canti d’offerta) fu grandemente lodata dal poeta irlandese Willima Butler Yeats e ebbe un successo tale che, successivamente, contribuì a fargli ottenere il Premio Nobel per la letteratura nel 1913, l’unico scrittore indiano a ottenere un tale riconoscimento. Mentre traduceva, Tagore modificò in alcune parti il suo testo originale, forse per renderlo più comprensibile agli occidentali. Un breve esempio: questa è la prima traduzione italiana di Giabar dine si kotai, tratta da Gitanjali, nella storica e ormai introvabile traduzione dalla versione inglese di Arundel Del Re, Edizioni Lanciano Carabba, del 1914, quindi sull’onda della notorietà che gli venne dal Nobel.
“Quando me ne andrò di qui, la mia ultima parola sia che ciò che ho visto è insuperabile. Ho gustato del miele nascosto di questo loto che si spande sull’oceano della luce, e ne sono benedetto – sia questa l’ultima mia parola. In questa stanza da gioco, dalle forme infinite, io mi sono baloccato e qui ho intravisto colui che è senza forma. Tutto il mio corpo e tutte le mie membra fremevano alla carezza di colui che è intangibile, e se la fine giunge ora, che venga; sia questa la mia parola di commiato“.
La forma di poesia in prosa non è un vezzo di Del Re, l’originale inglese era scritto così. Questa, invece, la traduzione del 1971 di padre Marino Rigon, missionario saveriano in Bangladesh, letteralmente conquistato dalla poesia di Tagore, che ha potuto tradurre direttamente dal bengali il Gitanjali originale per le Edizioni Guanda. Probabilmente ormai introvabile pure questo.
“Il giorno dell’addio dirò che non ho parole per narrare ciò che ho ricevuto. Benedetto perché in questo oceano di luce, ove regna il loto, ho bevuto dolce miele. Ho giocato tra le bellezze dell’universo i miei due occhi hanno visto cose meravigliose. Mi hai fatto toccare Te, che non puoi essere toccato, in tutte le creature. Qui puoi por fine ai miei giorni”.
Ci sono versi e rime, anche se il buon padre ha preferito una traduzione più letterale che ritmica, ma nell’introduzione ci sono esempi della prosodia bengali. Molto più panteista, molto più spirituale. Personalmente, preferisco la versione bengali. Ma è tempo di abbandonare l’India e l’amato Tagore. Per chiudere, però, non sceglieremo una poesia di Gitanjali, ma dalla raccolta che preferisco, Il giardiniere, del 1915, nella traduzione di Del Re, nella quale Tagore compone anche numerose poesie d’amore che, a me, ricordano il Cantico dei Cantici, ossia uno dei libri più belli della Bibbia:
“Vieni come sei, non indugiare ad abbigliarti. Se le trecce sono sciolte, se la scriminatura non è diritta, se i nastri della tunica sono slacciati, non importa. Vieni come sei, non indugiare ad abbigliarti. Vieni a passi svelti sull’erba. Se la rugiada discioglie la rossa tinta dei tuoi piedi, se i cerchietti a sonagli che porti alle caviglie si aprono, se cadono le perle della tua collana, non importa. Vieni a passi svelti sull’erba. Vedi quanto nubi oscurano il cielo. Dall’altra sponda del fiume si levano torme di gru e raffiche di vento passano sulla brughiera. Il gregge spaurito corre verso le stalle del villaggio. Vedi quante nubi oscurano il cielo. Invano tu accendi la lampada della toeletta; il vento la sbatte e la spegne. Chi potrebbe dire che le tue palpebre non sono tinte di nerofumo? I tuoi occhi sono più scuri delle nubi minacciose. Invano tu accendi la lampada della toeletta; essa si spegne. Vieni come sei, non indugiare ad abbigliarti. Se la ghirlanda non è intrecciata, che importa. se il braccialetto non è chiuso, lascia fare. Il cielo è pieno di nubi, è tardi. Vieni con me, non indugiare”