L’epopea di Gilgameš, il poema più antico della storia dell’uomo. Sì, hai capito bene, questa epopea è il primissimo esempio di volume che narra le gesta compiute da un’eroe e trascritte dagli scribi, in modo che esse potessero ispirare le generazioni a venire (che poi, come per tutti gli eroi, non ci sia proprio la certezza dell’esistenza storica di Gilgameš, beh, non deve stupirci troppo).
Quando è stata scritta l’epopea più antica al mondo?
L’epopea di Gilgameš non è un’opera monolitica, presente in una sola versione definitiva, anzi. Il personaggio di Gilgameš– in cuneiforme- era comune a tutte le popolazioni della Mezzaluna Fertile – la striscia di terra compresa tra i fiumi Tigri ed Eufrate (ah, che nostalgia, quante volte abbiamo sentito questa frase, a scuola, dopo aver studiato gli uomini primitivi e prima di iniziare con i Greci?) – quindi esistono molte versioni delle trascrizioni delle sue gesta. Le tavolette più antiche risargono al 2600 – 2500 a. C. (quindi una cosa come 4000 anni fa), mentre le più recenti (sempre in proporzione) al 1200 – 1100 a.C..
L’influenza dell’epopa fu talmente grande ed estesa, che se ne trovano tracce anche nell’Antico Testamento, quando si parla, ad esempio, del Giardino dell’Eden e del Diluvio universale – è probabile che tali racconti siano stati in qualche modo interiorizzati dalla popolazione ebrea durante il periodo di schiavitù in Babilonia.
Solitamente, per narrare le gesta dell’eroe si fa riferimento al poema in lingua babilonese, oppure a quello in accadico, utilizzanto la versione in sumero, più antica, per colmare le lacune. Tuttavia, sono stati ritrovati testi dello stesso filone anche in lingua ittita e hurrita.
La versione babilonese, considerata classica, de L’epopea di Gilgameš è stata scritta in caratteri cuneiformi su dodici tavolette di argilla. Ogni tavoletta contiene tre colonne per lato – era usata sia fronte, sia retro – ognuna composta da cinquanta righe. Gli studiosi hanno stimanto, quindi, che l’intero poema sia lungo all’incirca tremila righe, di cui oltre duemila sono giunte fino ai giorni nostri.
Queste tavolette, attribuite allo scriba ed esorcista cassita Sîn-lēqi-unninni furono ritrovate tra le rovine della biblioteca reale nel palazzo del re Assurbanipal a Ninive, dall’archeologo assiro Hormuzd Rassam nel 1853. Già della seconda metà del XIX secolo cominciarono a essere disponibili delle traduzioni, e il trend non cessa ancora, visto che negli ultimi anni è uscita, in inglese, una versione che riporta l’immagine della tavoletta e poi il testo tradotto a fronte.
Tutte le avventure di Gilgameš, questo personaggio adorato come un dio ctonio, degli inferi, ma forse anche re umano realmente esisitito e divinizzato dopo la morte – ovviamente, gli studiosi hanno pareri contrastanti al riguardo – non vanno a formare un testo unitario, ma rimangono, appunto, tante singole avventure, scritte una dopo l’altra (finito lo spazio in una tavoletta, si iniziava direttamente con quella dopo). E anche il nome moderno, L’epopea di Gilgameš, è principalmente il tentativo occidentale di dare unità a questo corpus di racconti.
Consultanto antichi catatoghi sumeri, assiri e babilonesi, infatti, questo testo si trova registrato tramite la trascrizione del primo rigo della prima tavoletta: “in accadico: [šá naq-ba i-mu-ru i]; lett. «Colui che vide le profondit໓, un po’ come si fa con le poesie nella nostra tradizione.
Non ci resta, quindi, che leggere la storia di Gilgameš, re potente e assetato di battaglie, due terzi dio e un terzo uomo, legato al suo più caro amico in modo quasi fraterno, spaventato da una sola cosa: la morte.
L’epopea di Gilgameš: consigli di lettura
La versione che ti propongo de L’epopea di Gilgameš è quella pubblicata da Adelphi nel 1986 (partimao con una casa editrice dalla voce autorevole, che si occupa spesso di mitologia), ma esistono varie edizioni e ristampe: L’Epopea di Gilgameš. L’eroe che non voleva morire di Jean Bottéro ad esempio, o L’epopea di Gilgamesh: Le gesta del leggendario eroe alla ricerca dell’immortalità di Mario Pincherle.
Con Gilgameš, almeno millecinquecento anni prima di Omero, si manifesta la figura dell’eroe nella letteratura, una volta per sempre. Campeggiante fra cielo e terra, confitto in una macchina cosmica che appunto in Mesopotamia venne perfezionata, è il primo personaggio, la prima voce di singolo che ci parla.
Per due terzi divino, per un terzo umano, Gilgameš re di Uruk vuole ciò che vorranno tutti gli eroi: vincere il mostro. Ma l’eroe evoca naturalmente un doppio, un rivale che diventerà il compagno per eccellenza: e allora appare Enkidu, l’uomo che lascia la vita selvaggia per seguire l’eroe e trovare la morte. I mostri che i due amici avevano ucciso insieme non erano dunque i soli, né i più forti. Dietro di essi, si propone un’altra sfida: la morte. Così Gilgameš affronta, ormai solo, l’impresa di là da ogni impresa: la conquista dell’immortalità.
Tutti gli episodi di questa epopea – i viaggi, gli scontri, le seduzioni, gli inni, i lamenti – rimangono come modello per ogni letteratura. Ogni volta che qualcosa di simile ci viene raccontato, sentiamo dall’oscurità la voce della storia di Gilgameš, il «re che conosceva i paesi del mondo». E ricordiamo: «Egli era saggio: vide misteri e conobbe cose segrete: un racconto ci portò dei giorni prima del diluvio. Fece un lungo viaggio, fu esausto, consunto dalla fatica; quando ritornò, su una pietra l’intera storia incise».