Hai mai pensato, iCrewer, a quanti misteri si nascondono in un nome? Non soltanto nei nomi propri di persona, che sono stati indagati in lungo e in largo, quanto piuttosto nei toponimi, i nomi di luoghi. Spesso è difficile risalire alla loro origine, capire da che lingua derivano, venire a conoscenza del motivo per cui, nel corso dei secoli, se ne affermato uno invece di altri. Questo vale anche per “Bielorussia“.
Sono varie le ipotesi fatte sul toponimo di questo Paese dell’Europa Orientale, ma tutte sono d’accordo su un punto: quasi sicuramente il colore bianco ha una grande importanza in merito. Che sia un richiamo ai tradizionali abiti di lino candido, oppure un riferimento al colore di capelli, o ancora una coordinata geografica (l’ovest, secondo gli antichi slavi), non si sa per certo, ma di sicuro è un argomento affascinante.
La Bielorussia, annidata nel cuore dell’Europa, non ha nessuno sbocco sul mare, ma ha un numero esorbitante di laghi. Minsk, la sua capitale, è situata quasi al centro del territorio e, da lì, lancia uno sguardo sulle immense foreste, oro verde del Paese.
Bielorussia e letteratura
E proprio in questo angolo d’Europa vive la quattordicesima donna ad aver vinto il Premio Nobel per la Letteratura: Svjatlana Aljaksandraŭna Aleksievič. Nata in Ucraina nel periodo sovietico, terra di sua madre, è però cresciuta in Bielorussia, Paese natale del padre. Fu vittima di persecuzione, perché accusata di essere una spia del governo americano, e per questo cercò asilo in vari Paesi dell’Europa Occidentale. Alcune delle sue opere di cronache furono censurate durante il regime comunista e poterono essere pubblicate solamente in seguito.
La lingua in cui scrive i suoi lavori è il russo, circostanza diffusa negli Stati che hanno fatto parte dell’Unione Sovietica, in cui questa lingua si affianca a quella indigena. Nota cronista, Svjatlana Aleksievič si è occupata di molti dei maggiori avvenimenti del XX secolo, con articoli prima e libri poi.
Ha parlato delle donne sovietiche della Seconda guerra mondiale in La guerra non ha un volto di donna (1985); della guerra, vista attraverso gli occhi di bambini russi e bielorussi, in Gli ultimi testimoni (1985); dei reduci dalla guerra in Afghanistan in Ragazzi di zinco (1991); delle vittime della tragedia nucleare ucraina in Preghiere per Černobyl’ (1997); di come il crollo dell’URSS abbia condotto molti a tentare, e a commettere, il suicidio in Incantati dalla morte (1993) e di come sia cambiata la vita di tutti dopo la fine dell’Unione Sovietica in Tempo di seconda mano (2014).
La sua penna, dallo stile così caratteristico, ha ricevuto vari riconoscimenti, tra cui, nel 2015, il Premio Nobel per la Letteratura “per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo“.