È con qualche perplessità che mi accingo a scrivere sulla letteratura di un paese che è tristemente noto per una delle più sanguinose guerre civili mai combattute e per la sua povertà, a livelli talmente tragici che si può tranquillamente affermare che vive quasi esclusivamente di aiuti provenienti dall’ONU. Il Ruanda ha ottenuto l’indipendenza dal Belgio nel 1962, più o meno nello stesso periodo degli altri stati africani. Per quale motivo le colonie ex-belghe (vedasi anche il Congo) abbiano avuto storie così tragiche e sanguinose non è chiaro; eppure né francesi, né inglesi sono stati particolarmente teneri nelle loro colonie. Il Ruanda è uno stato piccolissimo, dalla superficie complessiva appena superiore alla Sicilia, fertile e quindi altamente popolato, nel bel mezzo dell’Africa, senza alcuno sbocco sul mare. Eppure in questo piccolo stato i popoli tutsi, hutu e bantu sono riusciti a dar vita a una guerra civile di una ferocia senza pari.
Non ci deve meravigliare, quindi, se la letteratura non sia proprio una priorità del paese. Inoltre, anche se negli ultimi anni l’analfabetismo, fra i minori di 15 anni, è sceso sotto il 30%, gli adulti sono in gran parte completamente analfabeti e quindi pessimi fruitori di libri. Se poi vogliamo raschiare il barile fino in fondo, la guerra civile non ha risparmiato molto delle tradizioni culturali del paese. La cultura tradizionale era basata soprattutto sulla musica e sulla danza. Da quando Bob Dylan ha meritatamente vinto un premio Nobel per la letteratura dovremmo avere una considerazione per la poesia cantata in musica decisamente maggiore. In più, pensiamo che alla base della nostra cultura letteraria stanno due inarrivabili capolavori che venivano cantati dagli aedi; una cultura orale che fu trascritta solo in seguito. Anche in Ruanda la tradizione letteraria è (o era) orale e si divide in tre generi principali: la poesia eroica, la poesia pastorale e la poesia dinastica. La prima si suddivide, ulteriormente, in poesia lirica (icivugo) e poesia epica (igitekerezo) che, di fatto, è una sorta di cronaca della storia del Paese. La poesia pastorale canta gli animali che permettono la sopravvivenza; in particolare si cantano le lodi della Vacca: l’amazzone armata di due giavellotti, ossia le sue corna. La poesia dinastica, o igisigo, è il genere più antico e canta le lodi di re e alti personaggi. Gli aedi erano veri e propri professionisti, funzionari di corte, che tramandavano di padre in figlio la professione e i poemi, che venivano imparati a memoria. Questa letteratura non scritta è stata raccolta, in parte, dall’abate Alexis Kagame (1912-1981) che è, ancor oggi, la figura di maggior rilievo, in campo letterario, religioso, storico e filosofico. Nel 1952 pubblicò Astrida Rwanda, in lingua kinya Rwanda, che è una sorta di genesi scritta coi modi del poema pastorale. Altri autori che hanno ricercato e trascritto opere tradizionali sono stati, soprattutto dagli anni ’70 ai ’90, Thomas Kamanzi, Cyprien Rugamba e Laurent Nkongori, che raccolse anche numerosi proverbi ruandesi. Pochi gli scrittori in lingua francese, anche se ebbe un discreto successo Joseph Saverio Naigizik, forse il solo a raggiungere una fama che ha oltrepassato i confini del paese.
Siamo i primi a sostenere che la cultura non è superflua ma è, anzi, indispensabile alla felicità umana. Peccato che in Ruanda, negli anni più recenti, ci siano state talmente poche occasioni di essere felici che questo aspetto sia stato completamente trascurato. La speranza è che in un futuro prossimo le condizioni sociali di questo paese sfortunato migliorino al punto di far fiorire una nuova letteratura che, coi mezzi che ci sono a disposizione oggi, possa essere diffusa e divenire sostegno anche per il resto del mondo. Che ne avrebbe bisogno.