Si può perdonare la violenza?
La storia che oggi vi voglio segnalare, amici di iCrewplay, è, senza dubbio, una storia che sembra uscita dai lugubri racconti dell’inquisizione medioevale, dove a dettare le leggi non erano i re o le regine bensì sacerdoti e papi, dove il desiderio di verità o il concetto personale delle cose veniva, con accanimento quasi satanico, distorto e addirittura considerato eretico, poichè contro il volere di Dio. Stiamo parlando del dodicesimo secolo eppure, anche nel luogo in cui si svolge la nostra storia, il tempo sembra essersi fermato. A Manitoba, infatti, una remota colonia Mannonita, situata in Bolivia, si vive una realtà lontana dalla occidentalizzazione e dal progresso, dove l’elettricità, le auto e il telefono sono una mistificazione, si parla in Plautdiesch, lingua arcaica, ormai, in disuso, comprensibile solo a chi vive nella comunità, e la sofferenza, una gioia da perseguire per raggiungere il Paradiso.
Le vicende legate alla comunità di Manitoba, all’epoca dei fatti, non solo sconvolsero le coscienze delle comunità boliviane, ma indussero le autorità competenti ad un maggiore controllo su quelle che erano effettivamente, le realtà vissute dai membri e, in particolare, le donne della comunità, regolamentata, senza possibilità d’appello, da norme severissime alle quali sfuggire era quasi impossibile.
Gli articoli dell’epoca, infatti, segnalarono come tra il 2005 e il 2011, proprio nella comunità Mennonita, si verificassero episodi all’apparenza strani e inspiegabili, di donne che al mattino si risvegliassero stordite e piene di dolori, con ferite sul corpo, ecchimosi ovunque, macchie ematiche e liquido seminale sulle lenzuola. Nonostante gli episodi venissero comunicati comunque, al Consiglio Ecclesiastico Mennonita furono addebitati come “selvaggia immaginazione femminile” e considerati trascurabili, tanto da indurre “le vittime” a non denunciare i fatti alle autorità ma a considerarli come eventi naturali e, ormai, inseriti nel normale svolgersi della vita.
Nei verbali del tempo, successivamente, l’esito evidenziò che 130 donne dai 3 ai 65 anni furono violentate da uomini dai 19 ai 43 anni; il rituale era sempre lo stesso, dopo aver spruzzato sugli infissi, uno spray usato per anestetizzare le mucche, si attendeva che facesse effetto e, con l’aiuto dell’oscurità, non usufruendo la comunità di luce elettrica, s’introducevano nelle case stuprando le vittime. I fatti, come vi dicevo, non furono mai denunciati ma svelati, senza volere, da due giovani donne che cominciarono a parlarne, convinte che tutto rientrasse nelle abitudini, tuttavia, una volta portati alla luce, la reazione dell’autorità giudiziaria di Manitoba, sconcertata dagli eventi, fu costretta ad intervenire, e dopo un lungo processo, gli stupratori furono condannati.
Miriam Toews, autrice di Donne che parlano, prende coscienza dei fatti accaduti e la sua esperienza in una comunità Mennonita, a Winnipeg, le consente di analizzare dall’esterno, con un certo distacco e ironia, l’ipocrisia dei principi che regolano le comunità, senza tuttavia metterle in discussione. Alle sue protagoniste, la scrittrice canadese, da la facoltà di ribellarsi agli eventi, di riunirsi, di riflettere su se stesse e soprattutto, la possibilità di riscattarsi per le violenze subite.
Le otto donne di Miriam sono donne violate, a cui è stata tolta la dignità con l’inganno e, per questo, in diritto di giudicare e decidere se è giusto o meno perdonare tale violenza. Quando viene comunicato loro il ritorno su cauzione degli stupratori nella comunità, le otto donne si riuniscono per decidere quale atteggiamento avere nei loro confronti, consapevoli di avere solo 48 ore a disposizione, scelgono di affidare ad uomo, voce narrante nella storia, il compito di redigere i verbali di ogni riunione.
Le otto donne mennonite discutono tra loro, prendono coraggio, analizzano i fatti, parlano dei loro sentimenti, dei loro sogni, delle conseguenze di ogni gesto, in fondo non sanno cosa le attende fuori dalla comunità, comunicano solo con la loro lingua, quale vita potrebbe attenderle fuori dalla loro realtà? Nell’attesa, August, innamorato di una delle donne, raccoglie le loro testimonianze e ne fa tesoro, perchè, in ogni caso, della violenza subita si parli senza timore, indipendentemente dalle loro decisioni.
Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata, siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo, siamo mennonite senza una patria, non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi, tutto quello che abbiamo sono i nostri sogni, per forza che siamo sognatrici”
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