Ciao iCrewer! In questo momento in cui certo non ci verrebbe in mente – e non deve venirci i mente – di viaggiare, vorrei riflettere con te su una cosa: perché è così bello leggere in treno?
Non so se a te capita mai, ma io, da brava pendolare, nei miei spostamenti da e per l’università, faccio sostanzialmente tre cose, mentre aspetto che arrivi la mia fermata: dormo (soprattutto il mattino); mi porto avanti con lo studio e i compiti (ebbene si, chi studia lingue ha un sacco di compiti anche all’università) e, per la maggior parte del tempo, leggo.
È una cosa che ho sempre fatto, sfruttare ogni momento libero, quando mani e occhi non hanno altro da fare, per perdermi tra le pagine di romanzi, saggi, fumetti. Sono arrivata al punto che se non ho almeno un libro nello zaino, passo la giornata con la spiacevole sensazione di aver dimenticato qualcosa. Per non parlare di quando sto per arrivare alla fine di un volume! In quel caso, le opzioni a mia disposizione devono essere almeno due, per non rischiare di avere con me solamente qualcosa che proprio non mi attira.
Tuttavia, come mai il treno è così congeniale alla lettura, oltre a essere fonte inesauribile di segnalibri dell’ultimo momento?
Il dondolio dei vagoni
Viaggiare nei vagoni ci assoggetta al movimento ritmico, rilassante del treno. A volte, causa persino sonnolenza. Mi aiuta, tuttavia, ad estraniarmi da ciò che mi circonda. Concentrandomi sul movimento continuo, prevedibile, riesco pian piano a smettere di badare alla scolaresca che urla dallo scomparto affianco, al signore che intrattiene tranquillamente una conversazione al telefono in vivavoce, alla ragazza con la musica così alta da permettermi di capirne le parole, sebbene lei stia indossando le cuffiette.
E quando questo stato di pace interiore è raggiunto, posso finalmente aprire il mio libro e iniziare a leggere. Raggiungo una dimensione tutta mia, a volte scoppio persino a ridere, dimentica del fatto che altre persone mi circondano. Il lato negativo? Gli infarti che faccio ogni volta che il controllore si avvicina e, dopo avermi chiamato due volte, mi tocca la spalla per attirare la mia attenzione. Devo essere divertente da vedere dall’esterno, con gli occhi spalancati, il volume che quasi mi sfugge di mano e un sussulto molto, molto evidente.
Tuttavia, l’andamento ritmico del treno, il suo aiuto a sprofondare nella lettura, può causare anche un altro effetto: perdere la fermata.
Il ricordo più nitido che ho a questo proposito è un giorno assolato di prima superiore, in cui le pagine mi avevano risucchiato a tal punto, che se mio papà non mi avesse telefonato per chiedermi dove fossi (veniva a prendermi, perché la stazione è nel paese affianco a dove abitiamo), probabilmente avrei continuato indisturbata a viaggiare.
Il libro colpevole? Io e Marley, di John Grogan.
Il paesaggio così mutevole
Leggere in treno ha un enorme vantaggio, o forse sarebbe più giusto chiamarlo privilegio: poter alzare, in qualunque momento, gli occhi dalle pagine e immergerli in paesaggi bellissimi. Forse è una condizione propria dell’Italia, in cui gli scenari da cui possiamo farci abbagliare sono una moltitudine, e anche solo un paio di chilometri possono fare un’enorme differenza.
Purtroppo, come forse potrebbe averti fatto intuire il paragrafo precedente, non sono molto brava a lasciar perdere la lettura. Capita più spesso che alzi la tesata, sbattendo le palpebre, come appena uscita da un sogno particolarmente vivido, solamente quando riconosco la curva che precede la mia fermata di cambio, o quando mi accorgo che il treno non si sta muovendo da un po’e che, quindi, è probabile che stiamo facendo sosta nella stazione che precede quella della mia discesa.
Tuttavia, negli ultimi tempi, mi è capitato due volte di uscire da questo mio trend di comportamento.
La prima è stata una mattina, andando all’università. Il vagono era troppo affollato per dormire, così stavo leggendo. Avevo sottovalutato le pagine che mi separavano dalla fine di I perfetti vicini di casa di Rachel Sargeant, pubblicato da Newton Compton editori, e mi ero ritrovata, all’improvviso, senza più nulla con cui impegnare la mente (non era un’opzione mettersi a studiare il manuale di storia alle otto e quindici del mattino, assolutamente no). E così non mi era rimasto altro da fare che guardare fuori dal finestrino. Per fortuna, direi, perché improvvisamente, da qualche parte tra Padova e Mestre, il treno si è fermato nel mezzo di un capo dall’erba alta.
Mi è mancato il fiato.
Simile è ciò che è accaduto durante le vacanze di fine anno, mentre mi stavo recando a Berna con un’amica. Le Alpi innevate, illuminate dalla luce rosa dell’alba hanno spodestato in un attimo Il monastero di Luis Zueco, edito da Newton Compton.
Un modo per trovare il proprio equilibrio anche in mezzo a una folla
Come dicevo prima, leggere in treno ci permette di creare una nostra bolla, un piccolo angolo di quiete in cui esistiamo solo noi e il nostro libro.
Certo, nei vagoni possono nascere molte conversazioni interessanti, propria come accade alla protagonista de Il fuoco, il vento e l’immaginazione di Anonella Salottolo, Kubera edizioni, ma io sono essenzialmente timida e abbastanza riservata, quindi, la mia tendenza è quella a non incrociare lo sguardo di altri passeggeri e a non attaccare bottone.
Ho perso il conto di quanti sono i titoli che mi hanno consentito di sopravvivere alle lunghe ore seduta in scomparti sovraffollati, che diventano velocemente o troppo caldi, o troppo freddi. Durante il primo anno di corso, credo di aver letto la maggior parte dei libri di letteratura tedesca appiccicata al finestrino, per cercare di non aderire proprio completamente al fianco del mio vicino, con la testa bassa, per non guardare che mi stava di fronte e cercando di non ascoltare conversazioni che non mi riguardavano.
I libri sono sempre stati e, spero, sempre saranno, il portale di accesso al mio personalissimi Eden.
Una sola volta ho dovuto obbligarmi a smettere. Stavo leggendo Quando all’alba saremo vicini, di Kristin Harmel, pubblicato da Garzanti, e al secondo capitolo ho dovuto chiudere tutto e mettere via il libro. Il motivo? Non riuscivo più a contenere le lacrime. Non che sia una storia così triste o straziante, capiamoci, ma non c’era verso di fermare le lacrime. Ci ho riprovato anche durante il viaggio di ritorno, ma alla fine ho dovuto gettare la spugna e dichiararlo “romanzo da leggere tra le mura di casa”. È stato l’unico modo per riuscire a finirlo senza fare una figura troppo imbarazzante.
Bellissimo articolo: mi sono rivista in ogni singola parola =) Anch’io avevo l’abitudine di leggere in treno, quando andavo all’università e ne sento tremendamente la mancanza. Quei quarantacinque minuti di viaggio passati fra le pagine del romanzo erano un toccasana, perchè li dedicavo totalmente a me e ai libri.
Se dovessi scegliere un titolo fra quelli letti che rappresenti la trance in cui mi immergevo in ogni viaggio, sicuramente Dio di illusioni di Donna Tart. Ho quasi perso la mia fermata più di una volta a causa sua!
Ciao Alessia! Sono molto contenta che l’articolo ti sia piaciuto! Sono d’accordo, la lettura in treno crea proprio dipendenza!