La tragedia greca ha segnato la storia della letteratura e del teatro. La storia del costume e la stessa concezione della drammaturgia. Tre sono i tragediografi che hanno operato questa immane rivoluzione attraverso le loro opere, Eschilo, il più antico, di cui ci sono pervenute solo sette opere di una novantina che probabilmente ha scritto. Si deve a Eschilo la moderna concezione del dramma che prima della rappresentazione delle sue opere era costituito da lunghi monologhi di stampo religioso.
Per chi come me ha trascorso i pomeriggi dell’adolescenza a tradurre il greco antico, l’intensità dei versi di Eschilo, seppur nel suo greco arcaico, non ha eguali. Parlo per esempio della grande Orestea, il dramma in tre libri che vede protagonista Oreste, il figlio di Agamennone, il Re di Tebe, che partì insieme al fratello Menelao alla volta di Troia.
La tragedia greca, drammi intensi e modernissimi.
La leggenda vuole che Agamennone, che dà il nome al primo libro del ciclo di Oreste, per placare l’ira della dea Artemide e partire per Troia con auspici favorevoli, sacrificò la figlia Ifigenia, Ebbene, al suo ritorno vittorioso dopo la guerra di Troia, Eschilo ci narra con stupenda violenza l’omicidio di Agamennone per mano della moglie Clitennestra e dell’amante di lei Egisto.
Il secondo libro dell’Orestea, Le coefore, narra del ritorno a casa di Oreste e di come lui per vendicare la morte del padre, uccida la madre e il suo amante. E infine il terzo libro, Le Eumenidi, un vero e proprio processo con le Erinni, dee della vendetta (chiamate Eumenidi quando sono inclini al perdono), che chiedono a gran voce la testa di Oreste e Artemide che lo giudica incolpevole.
Drammi degni dei thriller psicologici più complessi, una descrizione delle emozioni che incanta e stupisce per profondità.
Il secondo tragediografo, Sofocle, raccoglie l’eredità del suo predecessore modernizzando ancora di più la struttura della tragedia e inserisce attori. Non più due personaggi che dialogano ma fino a quindici coreuti e scenografie sempre più complesse e animate. Con Sofocle si ha la tragedia greca come la immaginiamo da uomini moderni. Sofocle si stacca dalla necessità di legare opere in una stessa storia e scrive tragedie di una tale intensità che ancora oggi sono ricordati come i più terribili drammi.
Edipo re, il sovrano disgraziato che inconsapevolmente uccise suo padre e sposò sua madre, chi non si è trovato raccapricciato davanti a questa storia che pure per profondità psicologica ha anticipato di migliaia di anni la cosiddetta sindrome di Edipo.
E infine, caro lettore, la tragedia greca che io preferisco, quella assoluta di Euripide, il più moderno dei tre, quello che affronta temi più scottanti e contemporanei: il rapporto tra figli e genitori al centro della scena con le Baccanti, dove una madre, in preda alla follia indotta dal rito in favore dei dio Dioniso, uccide il proprio figlio. E come non citare la Medea, la tragedia in cui lei, dopo aver tradito il padre per salvare l’innamorato Giasone in cerca del Vello d’oro e averlo seguito in terra straniera, viene tradita e abbandonata proprio da quel marito che le deve la vita, il quale sposerà un’altra donna, meno scomoda e più rispettabile.
In preda al delirio della sofferenza, in una scena che fa rabbrividire al solo pensiero, Medea uccide i suoi figli per vendicarsi del loro padre e fugge su un carro che le ha messo a disposizione il dio Apollo. Idee di tragicità connessa alla religione, capaci di lasciare turbati nel profondo anche noi, uomini moderni, che pure ci vantiamo di poter conoscere la psiche umana molto meglio di chi scriveva nell’antica Grecia.
Ma è poi davvero così?