La nuova stagione di Silvia Ballestra
Ne La nuova stagione di Silvia Ballestra edito Bompiani ci viene raccontata una storia intrisa di emozioni, sensazioni, tradizioni e ricordi. Devo essere sincera: quando ne ho iniziato la lettura, a partire dal titolo – sul quale mi piace sempre crogiolarmi per capire cosa mi attende – mi aspettavo un racconto diverso, ma a man mano che procedevo nella lettura mi sono resa conto che il libro avrebbe seguito un andamento dissimile da quello da me immaginato.
Sono rimasta delusa? Lo sono rimasta per metà, perché in fondo questo romanzo mi ha regalato proprio quella inusualità grondante di realismo su talune vicende spesso non considerate nella loro importanza.
La storia si disloca nelle Marche, regione la cui dolcezza paesaggistica è stata di sovente ferita da eventi atmosferici che l’hanno piegata in ginocchio:
«Mesi prima, altri eventi eccezionali avevano ferito quei posti. Terremoti di forte intensità avevano colpito l’entroterra causando centinaia di vittime e danni terribili a decine di paesi. Era successo in agosto, poi di nuovo a ottobre, poi a gennaio.»
Si raccontano storie popolari, aneddoti che si tramandano di voce in voce, una sorta di vox populi, e proprio qui, in questo paese deturpato dai forti terremoti e con le ferite ancora aperte sul futuro che si rimarginano con lancinante lentezza, si pone la storia di due sorelle: Olga e Nadia. Due ragazze divenute oramai due donne fatte, che si trovano a dover prendere delle decisioni cruciali che le porterà, inevitabilmente, a delle scelte affinché possa avere inizio una nuova era, appunto quella che è la nuova stagione.
Il romanzo viene narrato da una sorta di voce fuori campo che dopo un inizio nel presente ci conduce nel passato attraverso delle digressioni – che potremmo definire di secondo grado, tanto sono ampie – per poi tornare, solo alla fine, al tempo attuale.
Dal punto di vista strutturale il libro si presenta suddiviso in sedici capitoli e non tutti contengono la medesima lunghezza: taluni sono più brevi altri più lunghi. All’interno dei capitoli stessi, poi, certi periodi vengono staccati gli uni dagli altri di modo che il discorso non divenga troppo lungo o qualora venga descritta un’altra scena.
Nel romanzo vengono intercalate molteplici espressioni nel tipico idioma marchigiano, ciò collima perfettamente con la vicenda narrata; il linguaggio è spesso colorito ma tutto sommato questi improperi non guastano perché si incastrano alla perfezione con i dialoghi fra i protagonisti.
Nessun refuso riscontrato.
La scrittura dell’autrice è fluida, piacevole, anche erudita se vogliamo, che sa miscelare bene i periodi ove vengono inserite le espressioni tipiche del dialetto regionale, a quelli ove, al contrario, vengono utilizzati dei termini più particolareggiati o specifici, tipici del settore agricolo e/o ambientale. Alle parti descrittive ho prediletto quelle inerenti i dialoghi fra i personaggi, che ho trovato sublimi, così ben scritti tanto da sembrare reali e da farti immaginare di essere lì presente. Ho apprezzato l’ironia implicita – e non – che è stata inserita nelle discussioni, il modo, insomma, di come Silvia Ballestra ha impostato queste conversazioni. Per rendertene l’idea ti riporto un breve scambio di battute:
«Digitando furiosamente, l’aveva beccata al volo:”Mamma! Ma a chi cazzo vai dando il mio numero? Mi ha telefonato una rincoglionita e puoi averla mandata solo tu!” E Liliana, che era l’unica ad avere il suo numero e quindi a darlo:” Io? Ma io non l’ho dato a nessuno, giuro! Ma ti pare? A una rincoglionita poi… Io non conosco nessuna rincoglionita”», caro amico lettore, non so a te, ma a me ha suscitato ilarità questo dialogo che – ti preciso – avviene tra una figlia e una madre non più giovanissima.
Il rapporto tra le due sorelle poi è descritto in maniera naturale e spontanea, così come, probabilmente, sarebbe un rapporto di tal genere nella realtà; Olga e Nadia così in sintonia e coese anche nelle decisioni più critiche: non una discrepanza in questo legame. In questo rapporto ben si incastra anche quello delle due donne con la madre, Liliana.
Il romanzo, in verità, narra delle vicende piuttosto reali, fatti comuni e tipici delle mezzadrie, è una storia abbastanza lineare, continua, con un ritmo narrativo costante; immaginatelo come un mare senza onde, ecco. Ciononostante è un libro che può insegnarti tanto, ti pone dinanzi al fatto che molte regioni siano state spesso vittime di violenze da parte degli agenti atmosferici che, inconsapevolmente, le hanno deturpate, osteggiate; molte di loro, anche a distanza di tempo, faticano a risollevarsi.
È un romanzo che tocca vari aspetti, quello delle donne che spesso vengono intralciate, o considerate non in grado né di competere con gli uomini né tanto meno di gestire quegli affari più perigliosi, ove occorre quella giusta combinazione fra arguzia e faccia tosta: ma in questo Olga e Nadia hanno dimostrato di avere quel, diciamo così, savoir faire che ha permesso loro di non farsi calpestare da nessuno.
La storia narrata, altresì, ti mostra quella venerazione che i vecchi mezzadri o comunque padroni avevano per le loro terre. In fondo i proprietari terrieri, così come i braccianti, esistono tutt’oggi, soprattutto nelle regioni del Centro-Sud: tutti questi lavoranti ogni giorno escono di casa quando il sole spesso non è ancora sorto, che sia estate o che sia inverno, che il sole splenda o che la pioggia batta, per andare a guadagnarsi un tozzo di pane con il solo sudore della fronte e la forza delle braccia.
Oggi, però, tutto ciò avviene con una grande differenza: una volta la raccolta in campagna era caratterizzata da una grande gioia, un evento faticoso ma leggero – leggero per il cuore – nonostante alla sera si arrivasse con la schiena spezzata e le mani callose e ruvide, c’era allegria mentre si stava chini a raccogliere o con il capo in su per scorgere i frutti rintanati fra i rami «Ce lo ricordavamo tutti e se lo ricordava bene Peppe: nel periodo della raccolta della frutta, quei campi si animavano di voci e presenze che, nonostante il caldo feroce e la fatica, erano una festa». Oggi, la gente, lo fa quasi esclusivamente per riuscire a racimolare quei pochi spiccioli che servono per sopravvivere.
Nel romanzo, inoltre, viene citato anche il biologo nonché docente e saggista italiano Stefano Mancuso autore dell’inusuale quanto originale libro La nazione delle piante, che io ho avuto il piacere di leggere e restarne affascinata.
Infine ti regalo una dritta: mentre leggi la storia ti ritrovi faccia a faccia con una vicenda diversa che si interseca e intreccia con la narrazione principale, ma che da essa si distacca leggermente per diversità di trama. In questo punto la lettura è stata più vorace, continua, ininterrotta perché mi ha veramente appassionata tanto da voler sapere l’epilogo della stessa.
È vero, alle volte la lettura di questo romanzo è proceduta a rilento, molto spesso mi sono ritrovata a perdere la concentrazione e a doverla riacciuffare per riportarla sulla dritta via; avrei voluto bypassare certe parti, soprattutto quelle lungamente descrittive.
Ma in fin dei conti sono contenta di aver letto La nuova stagione perché farà sempre parte del mio personale bagaglio di conoscenza, e perché ti fa comprendere quanto il legame con le proprie origini sia intenso, tanto connaturato che benché tu ti veda costretto ad abbandonare la tua terra, questa sarà sempre con te in quella valigia di ricordi che, nei momenti in cui ti sentirai assalire dalla mestizia, deciderai di aprire e percorrere quello che è un viaggio nel tempo.
«Quello che non aveva dimenticato , di quel tempo lontano, era la figura di suo padre sul trattore cabinato che scarrozzava tubi e rulli, o che, seduto anche lui a terra o nella macchina dal finestrino aperto, contemplava i suoi campi, assorto in progetti e considerazioni sul da farsi.»