Buona Pasqua, caro Icrewer!
In questo giorno così speciale per la religione cristiana ho deciso di parlarti di un filosofo particolare, uno che il cristianesimo l’ha insieme combattuto e difeso: Søren Kierkegaard.
Il giorno di Pasqua, inoltre, celebra il sacrificio ma anche la rigenerazione, la rinascita attraverso la fede, tutte tematiche che il filosofo danese ha ampiamente indagato nella sua lunga carriera da letterato. Ecco perché ho deciso di dedicare proprio a lui questo numero di Filosofiamo.
E dunque, senza ulteriori indugi, filosofiamo!
Kierkegaard: una vita alla ricerca della sua verità
Kierkegaard nacque in Danimarca nel 1813 da una famiglia luterana. Il clima di severa religiosità in cui crebbe lo instradò agli studi teologici che concluse brillantemente alla facoltà di teologia di Copenaghen. Tuttavia, non intraprese la carriera di pastore a cui lo abilitavano i suoi studi. Del resto il rapporto del filosofo con la Chiesa danese non era dei più distesi. Più volte, infatti, si è scagliato contro le istituzioni ecclesiastiche accusandole di aver ormai dimenticato l’autenticità del messaggio cristiano.
Accecati dalle luci della società moderna che aveva cominciato a sedurre la gente con le malie di tecnologie sempre più confortevoli, per Kierkegaard i credenti avevano finito per smarrirsi e, inevitabilmente, le loro vite si erano svuotate di significato. Egli stesso visse ripetutamente questa profonda crisi. Nel 1840, ad esempio, chiese la mano di Regine Olsen, ma dopo un anno ruppe il fidanzamento a causa di una «scheggia nelle carni», così la chiama nel suo Diario, senza, però, spiegare a cosa si riferisca realmente.
Clare Carlisle, nel suo libro Kierkegaard. L’inquieto filosofo del cuore, scrive giustamente che Kierkegaard è «probabilmente il primo grande filosofo a vivere nel mondo riconoscibilmente moderno dei giornali, dei treni e delle vetrine, dei luna park e dei grandi negozi del sapere e dell’informazione».
Nelle moltissime opere da lui scritte, Kierkegaard cerca di trovare un modo per combattere questa crisi e quella “scheggia nelle carni” che non riesce a tradurre a parole. La sua filosofia parte, quindi, dalla ricerca della verità. Ma se i suoi colleghi filosofi del tempo, come Hegel, si concentravano sull’idea di trovare una verità assoluta, oggettiva, Kierkegaard va esattamente nella direzione opposta. Rifiuta l’idea di una verità valida per tutti e ne propone una che sia soggettiva, cioè vera solo per sé stesso. Sempre nei suoi Diari scrive:
Ciò che conta è comprendere a cosa sono destinato […] la questione è trovare una verità che sia vera per me, trovare l’idea per cui sia disposto a vivere e a morire. A cosa mi servirebbe trovare una verità definita oggettiva, farmi largo attraverso i sistemi dei filosofi ed essere in grado di passarli in rassegna alla bisogna? […] A cosa mi servirebbe che la verità fosse davanti a me, fredda e nuda, indifferente al fatto che io la riconosca o meno, che mi produca un brivido timoroso o una devozione fiduciosa?
Il cavaliere della fede
E la sua verità, Kierkegaard la trova nella fede. Una fede diversa da quella professata dalla Chiesa, come quel sentimento di accettazione acritica di dogmi religiosi o l’adesione a una dottrina prestabilita quasi arbitrariamente da qualcuno. La ricerca del pensatore danese lo ha portato ad una sola verità: che Dio non può essere compreso.
La fede è quel “salto” nell’assurdo, quell’abbandono al paradosso di un Dio eterno che ha messo piede nel mondo per salvare gli uomini che lo abitano. E questo “salto della fede” non è certo facile! In Timore e Tremore Kierkegaard recupera la figura di Abramo che ha sentito l’angoscia e la disperazione di dover sacrificare suo figlio nel momento in cui si è abbandonato al suo Dio.
Eppure, per quanta angoscia può generare questo salto, per Kierkegaard è l’unico modo per dare un senso alla propria esistenza, per raggiungere la “sua verità”. Ed è in nome di questa verità che il pensatore danese ha sacrificato tutto: l’amore per la sua Regine Olsen, la sua carriera da pastore e persino la sua stessa vita. Infatti Kierkegaard si era rifugiato in una villa lontano dalle “tentazioni” mondane.
E questi sacrifici, come Abramo, lo avevano reso un «cavaliere della fede». E un cavaliere, spiega Kierkegaard, non deve necessariamente compiere riti, cerimonie pubbliche o sottoporsi a proibizioni e rinunce come facevano gli ecclesiastici del tempo o gli eremiti. Un cavaliere è tale perché ha messo Dio al centro della sua esistenza e ha recuperato con lui un rapporto che è del tutto personale e soggettivo.
Ora, Kierkegaard aveva trovato la sua verità nella fede. Ma, a differenza di molti religiosi del suo tempo (e non solo), non cercava di convertire o forzare alcuno a compiere quel salto. La fede, del resto, è sempre la “sua” verità.
Oggi, dunque, dal filosofo danese tutti possono imparare qualcosa, non solo i cristiani. Kierkegaard invitava tutti a fermarsi, a prendersi un momento di pausa dalla frenesia e dal caos cui ci sottopone la modernità. Una modernità che è certamente seducente ma che, più spesso di quanto desideriamo ammettere, ci costringe a guardare le nostre vite dall’esterno con un profondo senso di vuoto e di inquietudine.
Per superare tale stallo, bisogna fermarsi a riflettere, a cercare la nostra verità, quella valida per noi e noi soltanto ed infine compiere quel salto per abbracciarla.
Non è un percorso semplice, né felice, avvisa in ultimo il filosofo.
Eppure è l’unica cosa che può davvero restituire un senso alla fragilità delle nostre vite.