Ci sono autori che ti conquistano e libri che non dimentichi più e Cent’anni di solitudine, l’opera maggiore di Gabriel Garcia Marquez, per me è uno di questi.
Quando ho deciso di leggerlo, non sapevo cosa aspettarmi:la mole del libro non era incoraggiante ma la storia della famiglia Buendia e della città di Macondo, mi ha ben presto incantata, lasciandomi dentro un segno indelebile. Sia perché si tratta di una storia incredibile e magica, sia perché il modo di scrivere dell’autore è come un vortice che ti avvolge.
Cent’anni di solitudine è un capolavoro ed è considerato il secondo libro più importante mai scritto in lingua spagnola dopo il Don Chisciotte di Cervantes. Grazie a questo libro García Márquez vince il Nobel per la letteratura nel 1982 con la seguente motivazione: «Per i suoi romanzi e racconti, nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i conflitti di un continente».
Per raccontarti di lui parto da come ha iniziato a scrivere. Lo raccontò nel discorso che pronunciò nel 1970 presso l’Università di Bogotá, in Colombia, tratto dal suo libro Non sono venuto a far discorsi:
“Confesso di avere fatto tutto il possibile per non partecipare a questa riunione: ho cercato di ammalarmi, ho tentato di farmi venire una polmonite, sono andato dal barbiere con la speranza che mi sgozzasse e, infine, mi è venuta in mente l’idea di presentarmi senza giacca e cravatta in modo che non mi facessero entrare a un incontro formale come questo. Risultato: eccomi qui e non so da dove cominciare. Però vi posso raccontare, per esempio, come ho iniziato a scrivere.”
Il suo primo racconto lo scrisse per Eduardo Zalamea Borda, che era un suo grande amico, e direttore del supplemento letterario «El Espectador», al quale collaborava. Lo fece più che altro per solidarietà verso di lui, che pubblicò un articolo in cui diceva che le nuove generazioni di scrittori non offrivano nulla, che non si scorgeva da nessuna parte un nuovo autore di racconti o un nuovo romanziere. La domenica successiva quando Marquez aprì il giornale trovò il suo racconto a tutta pagina accanto ad un articolo in cui Eduardo Zalamea Borda riconosceva di essersi sbagliato sull’assenza di nuovi scrittori, perché evidentemente «con quel racconto nasceva il genio della letteratura colombiana» o qualcosa del genere.
Da quel momento in poi continuò a scrivere, ma non fu sempre semplice trovare una storia da raccontare. E in effetti lui racconta che non sapeva mai quanto sarebbe riuscito a scrivere né cosa avrebbe scritto. Il suo metodo era questo: aspettare che gli venisse in mente qualcosa e, quando riteneva che l’idea fosse buona, la rimuginava in testa e la lasciava maturare. Solo quando l’aveva rifinita in testa si siedeva a scriverla, e quella era la parte più difficile e noiosa per lui. Nel caso di Cent’anni di solitudine, ci ha pensato addirittura per diciannove anni. In effetti, per lui la cosa più piacevole della storia era concepirla, affinarla pian piano, girandosela e rigirandosela in testa, perché poi al momento di mettersi a scriverla ormai non gli interessava più, almeno a lui.
La sua vita e la formazione ce le racconta in Vivere per raccontarla, con otto lunghi capitoli di memorie narrative scritte quando è stato colpito da un linfoma nel 1999.
«La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla».
In questa autobiografia, edita nel 2002, racconta un periodo fondamentale della sua vita, gli anni dell’infanzia e della giovinezza. Da questo libro emerge il suo difficile rapporto con i genitori, che avevano aspettative differenti rispetto ai desideri e le aspirazioni di “Gabo”, e di come lui abbia affrontato alcuni momenti difficili della sua vita, per poi arrivare alla scrittura.
Primogenito di sedici fratelli, Márquez nacque in Colombia nel 1927. Fu cresciuto dai nonni paterni, dai quali imparò fiabe e leggende tradizionali colombiane. Nel 1937, in seguito alla morte del nonno, si trasferì a vivere in collegio, dove studiò e si diplomò nel 1946. Successivamente si iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche ma abbandonò gli studi, in quanto non nutriva un reale interesse per quelle materie. Dal 1948, Márquez iniziò la carriera di reporter e giornalista, lavorando per diverse testate. Il suo esordio letterario avvenne nel 1955 con il romanzo Foglie morte, ma il primo racconto risale al 1947.
La sua vita letteraria fu divisa tra giornalismo, politica e narrativa. Dopo la pubblicazione di Cent’anni di solitudine (1967), considerata la massima espressione del realismo magico, per un periodo si dedica solo al giornalismo sul campo, in segno di protesta per il colpo di stato cileno del generale Augusto Pinochet, che determinò la morte del presidente Salvador Allende.
Negli anni successivi ha scritto molti altri romanzi e saggi, fra i quali L’amore ai tempi del colera, che ebbe grande successo di pubblico. Dagli anni Ottanta agli anni Novanta torna per breve tempo in patria, insanguinata dalla guerra tra governo, narcotrafficanti e guerriglieri e farà da mediatore per cercare di ottenere la pace in Colombia.
Negli ultimi anni della sua vita, ormai ottuagenario, si è ritirato a vita privata, colpito dai primi segni di demenza senile. Si è spento nell’aprile del 2014 a Città del Messico, per alcune complicazioni dovute alla polmonite.