Quante volte abbiamo sentito (o detto) le frasi “Non mi interesso di politica!” oppure “Ah io di politica non ci capisco niente!”?
Molto spesso la politica si rivela, infatti, un campo spinoso, difficile da comprendere e da seguire, anche per colpa di coloro che di politica dovrebbero occuparsene in prima persona.
Ebbene per la nostra rubrica dedicata al mondo della filosofia, ho scelto una “filosofa” che ha passato la sua intera vita a combattere frasi di questo tipo: Hannah Arendt
Senza ulteriori indugi, conosciamo meglio questa donna e il suo pensiero e soprattutto…filosofiamo!
Hannah Arendt: la vita di una filosofa impegnata
Hannah Arendt nasce nel 1906 a Ligden, in Germania, da una famiglia ebrea. La sua intera esistenza sarà condizionata dalle sue origini. In Germania studiò filosofia, seguendo le lezioni di Heidegger con il quale, pare, ebbe anche una relazione sentimentale. Ciò che è certo è che tra i due ci fu sempre un legame molto stretto e profondo anche dopo che Heidegger aderì al nazismo. La Arendt terminò i suoi studi in Germania ma l’ascesa al potere di Hitler e la sua politica antisemita la costrinsero a fuggire dapprima in Francia, dove aiutò numerosi ebrei a fuggire verso la Palestina, ed infine negli Stati Uniti dove si stabilì in maniera quasi stabile.
Durante gli anni Sessanta, Arendt si distinse per il suo impegno civile e politico, prendendo posizione su questioni cruciali come il movimento per i diritti civili negli Stati Uniti e la guerra del Vietnam. La sua partecipazione al dibattito pubblico rifletteva il suo convincimento che gli intellettuali avessero il dovere di intervenire negli affari politici della loro epoca.
In una intervista del 1964 Hannah Arendt rifiutò ferocemente l’etichetta di “filosofa” preferendo definirsi una teorica della politica. Detestava, infatti, l’impianto della filosofia tradizionale (soprattutto ottocentesca e novecentesca) che rifletteva su l’Essere, su l’Uomo in senso assoluto e su tutto ciò che intangibile e slegato dall’esperienza umana. Uno dei concetti chiave nel pensiero di Arendt è, infatti, quello di “vita attiva”. Per lei, la vita umana è intrinsecamente legata all’azione e all’interazione con gli altri nell’ambito pubblico.
Lontana da una visione puramente contemplativa della filosofia, Arendt ha sottolineato l’importanza di assumere responsabilità e di partecipare attivamente agli affari del mondo. Per questo nelle sue opere invita a riflettere sull’essere umano, sul mondo in cui vive e sul modo in cui lo fa. La sua “filosofia” non punta a trovare una verità o a dare conclusioni univoca. È una filosofia che stimola gli altri a pensare da sé, senza pregiudizi così da generare un dialogo costante finalizzato alla comprensione di noi stessi e alla nostra crescita personale.
La banalità del male moderno
Hannah Arendt si è occupata di moltissime tematiche e questioni sociali che le sono valse sia grande ammirazione ma anche molte critiche, soprattutto dai suoi contemporanei. Ha analizzato il fenomeno del totalitarismo, la condizione umana, la libertà nella società moderna e molti altri.
Ma tra le sue opere, una delle più celebri rimane La banalità del male. Pubblicato nel 1963 quest’opera si presenta come una sorta di diario in cui l’autrice racconta il processo ad Adolf Eichmann, uno dei principali funzionari nazisti accusato di aver definito e portato avanti il progetto dell’Olocausto.
Nell’opera la Arendt sottolinea continuamente l’assoluta “banalità” e mediocrità di Eichmann in confronto alla spaventosa gravità del suo crimine. Eichmann non era un mostro, non era mosso da un odio feroce o da un desiderio di sterminio: era una persona come tante, normalissima e assolutamente povera di idee. Ne parla in questi termini: «Il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali»
Eichmann, come lui stesso ammise durante il processo, non pensava, non aveva un giudizio personale ma si era limitato a seguire gli ordini che gli venivano dall’alto. Questa incapacità di pensare, alimentata dal regime violento di cui si era reso un ingranaggio perfetto, lo sganciava da ogni tipo di motivazione e di responsabilità. Dal momento che non pensava a nulla se non ad eseguire i suoi ordini, gli ebrei di cui aveva progettato minuziosamente il trasporto, lo sfruttamento, le torture e l’uccisione per lui non erano che “numeri” o oggetti inanimati da spostare, manipolare e di cui, alla fine, disfarsi.
Oggi ci sembra che ciò che è accaduto in quei campi di concentramento, come ricorda anche Primo Levi, sia qualcosa di lontano, di distante, che non si verificherà mai più. Eppure la realtà dimostra il contrario e non bisogna necessariamente spingersi nei nuovi regimi totalitari per notarlo.
Hannah Arendt sottolinea come la banalità del male sia un fenomeno tutto moderno che nella modernità trova terreno fertile. La tecnologia, la burocrazia e tutte le comodità che abbiamo oggi ci hanno, in qualche modo, “spersonalizzato”, privandoci della capacità di ragionare, di metterci nei panni degli altri. I telegiornali ci bombardano di notizie terribili tanto che ci siamo abituati a guerre, stragi ed uccisioni a tal punto che appaiono quasi “normali”. Anche quando offendiamo o critichiamo qualcuno sui social non ci accorgiamo che dall’altra parte dello schermo si nasconde una persona in carne ed ossa.
Ed è qui che entra in gioco la “filosofia pratica” di Arendt. Applicarsi nel ragionamento, avvicinarsi alla politica o interessarsi a ciò che ci accade intorno, ci aiuta a sviluppare le nostre capacità critiche. Ci spingono a confrontarci con gli altri, ad intavolare con loro un dialogo che ci permetta di percepirne la vicinanza, il modo di pensare e di prendere decisioni.
Solo in questo modo, recuperando il coraggio di pensare, possiamo sperare di poter combattere e forse persino sconfiggere la banalità del male moderno.