Nel grande palcoscenico del pensiero occidentale, la filosofia ha spesso indossato l’abito austero della serietà. Ma questo è solo uno dei modi di fare filosofia. Spesso si può indurre alla riflessione anche con un sorriso, ironico, talvolta tagliente, talvolta liberatorio. Filosofia e umorismo, lontani solo in apparenza, si sfiorano più spesso di quanto si creda. Entrambi interrogano il senso del mondo, entrambi rovesciano le apparenze, entrambi – in modi diversi – mettono a nudo l’assurdo. Scopriamo insieme in che modo!
Ridere pensando: la riflessione antica e medievale

Già nell’antica Grecia il riso non era semplice distrazione. Aristofane, con le sue commedie, era in realtà un filosofo mascherato, un critico sociale armato di risate. E Platone, pur sospettoso verso la commedia – tanto da proporre di bandire i poeti tragici e comici dalla Repubblica – riconosce nel Filebo che esiste una forma di piacere intellettuale che si cela nel ridere. Ma avverte anche del rischio: il riso può derivare da una forma di ignoranza non riconosciuta, un modo per deridere ciò che non si capisce. È per questo che Platone teme l’ironia pubblica: perché svela l’ignoranza, anche di chi dovrebbe governare.
Sarà però Socrate – o meglio, il Socrate platonico – a fondere per la prima volta filosofia e ironia in modo potente. L’eirone, la figura dell’ironico, è colui che finge di non sapere per portare l’altro a scoprire la propria ignoranza. È una strategia umoristica e pedagogica al tempo stesso. Socrate non ride apertamente, ma mette in crisi, smonta certezze con leggerezza apparente. Ed è forse per questo che i suoi interlocutori finiscono spesso irritati: perché l’ironia, quando è vera, non consola, ma scuote.
Nel mondo romano, Cicerone scrive che la battuta ben assestata ha un valore retorico e persuasivo. Ma è con Luciano di Samosata, autore greco del II secolo d.C., che la satira filosofica prende forma matura. Luciano immagina dialoghi tra morti, divinità stanche, filosofi grotteschi: ride del sapere dogmatico, sbeffeggia chi predica virtù ma vive nel lusso. Il suo umorismo è smascherante, liberatorio, simile a quello che ritroveremo secoli dopo in Voltaire.
L’avvento della morale cristiana sembra mettere un freno al riso come strumento di riflessione e di denuncia. L’oscurantismo medievale, infatti, raramente vedeva di buon occhio l’umorismo che mal si scontra con il dogmatismo cristiano imperante in quegli anni. Sant’Agostino tollera appena il riso corporeo, Tommaso d’Aquino lo difende con prudenza, ma è soprattutto con la scolastica più rigida che il ridere viene relegato ai margini dell’etica.
Non a caso, nel romanzo Il nome della rosa, Umberto Eco immagina un manoscritto perduto di Aristotele dedicato alla commedia, nascosto e avvelenato, perché “la risata uccide la paura, e senza paura non c’è fede”. È una sintesi letteraria, ma efficace, della tensione tra verità assoluta e ironia.
Umorismo e filosofia oggi
Con l’età moderna, l’umorismo torna a farsi strada. Montaigne, nei suoi Saggi, alterna riflessioni profonde a osservazioni buffe e quotidiane. Spinoza invita a “non ridere né piangere, ma comprendere”, ma è nel Settecento che il pensiero illuminista riscopre la risata come arma. Voltaire ne fa una spada: Candido è un libro comico e tragico allo stesso tempo, che mostra quanto ridicola possa essere la pretesa dell’ottimismo filosofico. Blaise Pascal, poi, riuscirà a coniugare anche la morale cristiana con una riflessione più spigliata, ironica e coinvolgente, superando l’assolutismo dogmatico medievale.

Eppure è solo nel Novecento che l’umorismo viene analizzato in sé come fenomeno filosofico. Henri Bergson, nel suo saggio Il riso (1900), e Pirandello in L’umorismo tentano una definizione. La comicità per Pirandello è “l’avvertimento del contrario” e nasce quando avvertiamo un contrasto tra apparenza e realtà. L’umorismo è, invece, una “evoluzione filosofica” della comicità, è il “sentimento del contrario” e si genera quando la risata ci apre la strada alla riflessione. Il riso, allora, è anche un correttivo sociale: ridiamo delle mancanze perché riconosciamo in esse qualcosa di fuori posto. L’umorismo ha una funzione educativa, quasi etica.
Parallelamente, Sigmund Freud scrive Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, dove esplora la risata come via d’accesso al rimosso. Per Freud, l’umorismo è una scorciatoia dell’inconscio, una liberazione dal principio di realtà. E anche qui, come nella filosofia, il ridere è smascheramento: di sé, degli altri, delle regole.
Nel pensiero contemporaneo, l’umorismo continua a essere al centro di riflessioni importanti. Il filosofo tedesco Robert Pfaller parla del pleasure principle e di come l’umorismo sia una forma di piacere intellettuale che resiste al moralismo dominante. Anche Umberto Galimberti ha osservato che l’umorismo è la capacità di prendere distanza dal tragico, e che un mondo senza ironia diventa pericolosamente assoluto.

Oggi, nell’epoca dei meme, del sarcasmo e dell’ironia diffusa, la domanda diventa: stiamo ancora ridendo per pensare, o solo per distrarci? Oppure la risata si è ridotta solo ad uno strumento denigratorio per offendere e attaccare? Forse dovremmo cercare di rifuggire quest’ultimo aspetto e coltivare un tipo di comicità che induca a pensare, a riflettere sugli aspetti più paradossali e critici della nostra società. L’umorismo filosofico – quello che mette in crisi, che apre spiragli – è diverso dalla satira vuota o dalla battuta usa-e-getta. Non consola: rivela. Non deride per distruggere, ma per svegliare.
Forse, alla fine, ridere è una forma di pensiero. Perché chi sa ridere del mondo, spesso ha capito qualcosa in più di chi lo prende sempre sul serio. E allora, come diceva Kierkegaard, che fu tutt’altro che un comico: “Chi ha imparato a ridere delle cose, ha imparato a essere libero”.