Caro iCrewer, hai mai sentito parlare di Experiential Crossing? No, non si tratta di un tipo di sport estremo quindi puoi tranquillamente tirare un sospiro di sollievo e continuare nella lettura di questo articolo. Experiential Crossing è un fenomeno che, tradotto letteralmente dall’inglese, significa attraversamento esperienziale.
Certo, detto così sembrerebbe un qualcosa che abbia a che fare con una seduta dallo psicologo o una sessione di yoga, ma in realtà è qualcosa di ben diverso, qualcosa di più profondo che, caro il mio lettore – inconsciamente e verosimilmente senza che tu te ne renda nemmeno conto – ti accade ogni qualvolta ti trovi immerso nella lettura di un libro.
L’Experiential Crossing è una espressione coniata – e spiegata – dal noto psicologo e scrittore inglese Charles Fernyhough, autore di parecchi libri, tra le sue opere possiamo citare Le voci dentro. Storia e scienza del dialogo interiore, edito da Cortina Raffaello e Mille giorni di meraviglia, edito da Piemme; ebbene, secondo Fernyhough in ogni lettore, o comunque nella maggior parte, avviene questo fenomeno che appunto prende il nome di Experiential Crossing ovverosia una trasposizione dall’universo chiamato finzionale, quale quello del romanzo, all’universo reale, ergo quello della vita di tutti i giorni.
Lo psicologo inglese fa notare che la lettura di un libro non solo aumenta e migliora la nostra capacità di comprensione linguistica, ma incide anche sulla nostra immaginazione perché la storia, che fino a quel momento viene solo descritta sulla carta stampata, nella mente del lettore prende forma e i personaggi diventano, ai suoi occhi, vividi e realistici.
Per spiegare concretamente questo fenomeno, definito come una sorta di allucinazione, durante il Festival Internazionale di Edimburgo, nell’oramai lontano 2014, si è pensato di realizzare una sorta di test su un campione di circa 1500 lettori: tale esperimento è stato poi riportato su The Guardian, noto quotidiano inglese. È bene precisare però, che nella realtà dei fatti non è sempre semplice riuscire a capire se questo fenomeno avviene nella stessa misura e con le medesime modalità in tutti i lettori e quanto, soprattutto, queste esperienze siano comuni.
Dal sondaggio sperimentale messo in atto ne è venuto fuori un quadro sinceramente interessante: i lettori hanno dichiarato di riuscire ad udire le voce dei personaggi del romanzo, nello specifico è risultato che il 50% dei partecipanti ode le voci solo nel momento in cui si trova immerso nella lettura, mentre il 19% degli stessi ha ammesso di continuare a sentire le voci anche una volta chiuso il libro, insomma il lettore (tras)porta il personaggio con sé nella sua realtà al di là del libro: i partecipanti hanno descritto in maniera piuttosto dettagliata la loro esperienza di lettura.
A ben considerare se ogni lettore riflette in questo esatto momento su quanto appena letto, sono certa che esclamerà «Caspita! È vero, capita anche a me!», e in realtà ciò avviene sul serio: a me, ad esempio, succede di sovente che mentre stia leggendo un libro immagini le voci dei personaggi; le voci, poi, sempre secondo la mia immaginazione, assumono timbri diversi: voci da fumatore incallito, voci fioche, acute, tuonanti e così via. Proprio in merito a quest’ultimo aspetto, e sempre in relazione all’esperimento compiuto, i ricercatori hanno poi distinto una fusione interna da una fusione esterna, ovvero: nel primo caso il lettore suppone che la voce del personaggio sia una versione modificata della propria (e, se ci fai caso, è proprio così, alzi la mano a chi non è mai successa una cosa del genere), nel secondo caso, ovvero quello della fusione esterna, il lettore associa la voce del personaggio del romanzo a quella di parenti e/o amici.
Io personalmente sono rimasta letteralmente affascinata da questo fenomeno che, lo ammetto, non conoscevo, o perlomeno non nel dettaglio tecnico del termine: eppure posso dichiarare di essere sintomatica a tutto ciò, che puntualmente mi accade quando leggo un romanzo; non c’è volta in cui io non mi affezioni ad un personaggio in particolare, non c’è volta in cui io non immagini realmente quel soggetto, non c’è volta in cui, appena terminata la lettura, resti lì, sospeso, con in un universo parallelo, a pensare «E adesso come farò?» ne senti la mancanza come se un caro amico ti avesse lasciato improvvisamente, senza preavviso, ti senti triste, svuotato tanto da continuare a rimuginarci su per qualche tempo. Persino quando l’autore non ne esprime le caratteristiche fisiche – non ci dice se gli occhi sono azzurri, o se i capelli sono rossi, se è longilineo o corpulento -, ciononostante si riesce comunque a dare al personaggio precisi connotati fisici, questo perché non solo il lettore ha quella spiccata quanto rara abilità a calarsi e immedesimarsi nella lettura, ma nel caso specifico di questo fenomeno è la lettura che, viceversa, si cala nella realtà del lettore.
Per intenderci: è come se il personaggio uscisse dal libro (trasposizione) tanto che il lettore lo vede, lo vive e addirittura lo sente parlare, ne capta la voce e questo succede perché noi lettori abbiamo quella insolita sensibilità, quella fervida immaginazione, che fa sì che man mano che leggiamo, più ci addentriamo nella storia, più impariamo a conoscere e ad affezionarci ai nostri personaggi, o anche ad uno in particolare, e quindi, inevitabilmente, quel personaggio diventa, per noi, una persona reale; e così mentre ti ritrovi a preparare il pranzo, o anche mentre sei alla guida della tua auto, continui a pensarci, a porti delle domande, sembra strano, e anche un po’ assurdo se vogliamo, ma è così: noi lettori siamo in grado di rendere reali i personaggi dei nostri libri.
Ma sai cosa c’è di bello in noi lettori? Che la magia che sembra essere stata bruscamente interrotta quando un libro termina riprende nel momento stesso in cui inizi un altro romanzo, certo, non subito, perché hai bisogno un margine di tempo – una sorta di assestamento – affinché la tua mente capisca che un’altra storia sta per iniziare, poco importa se totalmente diversa dalla prima: è inevitabile, succede e basta.
Tutto ciò è anche merito dell’empatia che nasce, cresce e si crea tra il lettore e il personaggio, quasi come il legame madre/figlio, quasi fosse un cordone ombelicale che ti lega al quel soggetto e non puoi né farne a meno né evitarlo: empatia, quel sentimento che non vedi ma che c’è, che non puoi toccare ma che esiste; ciò sta anche nella bravura dell’autore, diciamolo, tutto parte da lì, dalla sua arguzia nel saper sapientemente descrivere un personaggio tanto da farcelo sembrare tangibile.
Edward Docx, scrittore britannico, che nasce in Inghilterra nel 1972, autore del suo primo romanzo, The Calligrapher pubblicato nel 2003, ha affermato che questo fenomeno può essere generato solo da un romanzo, perché, per quanto i film e/o i videogiochi possano suscitare tali sensazioni – e verosimilmente accade anche in questi settori -, nel caso di un libro, e solo in questa circostanza, si riesce a conoscere l’anima che appartiene a qualcun altro. E, in effetti, è proprio così.