La forma dell’acqua di Guillermo del Toro e Daniel Kraus, pubblicato in Italia da Tre60, è uno di quei romanzi che ho letto tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine in poco più di due giorni. Questo perché si tratta di una storia affascinante, ricca di personaggi dai punti di vista davvero differenti e variegati, che danno alla narrazione colori inaspettati.
È un libro che parla di emarginazione ed emarginati: tutti i personaggi principali, in qualche modo, si trovano appena fuori i confine della società dell’America degli anni ’60, in quella fascia grigia di discriminazione velata, presente ma non urlante. Elisa, la protagonista, ad esempio, è muta, e ciò la rende impiegata perfetta per la struttura governativa d’alta sicurezza in cui lavora. La donna delle pulizie ideale per il turno di notte, quella a cui affidare incarichi scomodi, tanto a chi può andare a raccontarli?
Giles, invece, non solo è un vecchio scapolo (ricordiamo che la famiglia ideale in questo periodo – ed è così ancora oggi per molti – è composta da padre, madre e due figli, idealmente maschio e femmina), ma è un artista, e quindi organizza la sua vita al di fuori dell’ambito di produttività e “utilità per la società”. Poco importa che sia una persona molto dolce, premurosa, e divertente; tutti vedo solo la sua arte quasi al tramonto, e ascoltano i bisbigli che parlano della sue preferenze sessuali.
La situazione di Zelda, poi, rientra in tutti gli stereotipi del caso: una donna afroamericana di mezz’età che ha passato moltissimi anni a lavorare nello stesso posto, per le stesse persone, a istruire il personale appena assunto, solo per vederli assegnare al turno delle pulizie diurno. Il tutto mentre lei e i suoi colleghi rimangono permanentemente al turno di notte, solo perché la loro pelle non è bianca.
In tutto ciò, il Dio del Fiume non rappresenta che il gradino più basso della piramide, l’essere vivente senziente e intelligente che ha la sfortuna di apparire diverso. Ai bracconieri non importa la sua storia, non tengono in considerazione il suo essere, per i popoli autoctoni, una divinità protettrice. Non hanno nessun rispetto per il suo essere, prima di tutto, un essere vivente. E quindi il Dio del Fiume diventa una cavia da laboratorio, il soggetto di esperimenti volti a soddisfare gli scienziati umani.
Gli esempi potrebbero continuare ancora, parlando della situazione delle donne, obbligate a essere solamente madri o mogli; oppure di immigrati costretti dal proprio Paese a lavorare come spie. Insomma, La forma dell’acqua di Guillermo del Toro e Daniel Kraus tratteggia un’immagine forte della società statunitense degli anni Sessanta, ma senza dire nulla esplicitamente, lasciando al lettore la facoltà di fare, o meno, tutti i collegamenti.
La forma dell’acqua di Guillermo del Toro e Daniel Kraus: meglio il libro o meglio il film?
Nel 2017 Guillermo del Toro, in veste di regista, ha realizzato il film The Shape of Water, tratto dal libro suo e di Daniel Kraus, e io ho deciso di contravvenire alla mia regola d’oro “non guardare il film, se hai letto il libro, perché tanto poi sai che passerai il tempo ad analizzare le differenze” e intraprenderne la visione. Soprattutto perché, mi sono detta, se è stato così acclamato e ha vinto dei premi, male non dev’essere, no?
E infatti, la visione è stata abbastanza piacevole. C’è una spiccata aderenza alla trama del romanzo di Guillermo del Toro e Daniel Kraus e il flusso della narrazione, in sé, funziona e cattura. Le ambientazioni sono ben realizzate e l’atmosfera che si crea permette di entrare agevolmente nella storia.
Detto ciò, ovviamente anche per motivi di tempo (non è che il film può durare quattro ore solo per raccontare tutto per filo e per segno) ho notato la forte mancanza di specificità nei confronti di almeno un paio di personaggi, che avrebbero sicuramente arricchito il sottotesto sociale e culturale. Anche il modo in cui la relazione tra Elisa e il Dio del Fiume si sviluppa mi ha lasciato un gusto strano in bocca: mi è sembrata mancare quella sinergia, quella complicità che s’intuiscono così bene leggendo La forma dell’acqua.
Tuttavia, sebbene me lo aspettassi (perché non so proprio come o se sarebbe stato possibile realizzarlo), la mancanza più grande che ho sentito riguarda il punto di vista del Dio del Fiume. Nel romanzo, quelle parti non solo aiutano a comprendere meglio il suo modo di vedere il mondo, di pensare, di vivere, e il suo modo di vedere e percepire Elise, ma movimentano lo stile in sé, obbligando il lettore ad adattarsi improvvisamente a un nuovo ritmo e a una voce profondamente diversa.
Nel complesso, direi che per me è meglio il libro, perché l’ho trovato più magico, più delicato e profondo, ma anche il film de La forma dell’acqua merita una visione.