Bellezza interiore di Irene Pepe
Caro iCrewer è venuto il momento di Irene Pepe e Bellezza interiore uno dei racconti presenti nella raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi. In questi giorni, in cui ognuno sta reinventando la propria quotidianità, una storia per riflettere su ciò che siamo.
Questo racconto vi farà rimanere col fiato sospeso fino alla fine. Non indugio oltre, ti auguro buona lettura!
Bellezza interiore
Mancavano esattamente dieci minuti alle cinque quando una figura alta, avvolta in un ruvido giacchetto di pelle, fece il suo ingresso nella Chiesa di Sant’Antonio. Inspirò l’aria che sapeva di chiuso e di incenso. Nascosti sotto quegli odori, ce n’erano altri, più sottili, annidati negli angoli più bui. Chiuse gli occhi e respirò nuovamente l’aria della Chiesa. Riusciva a sentire l’odore delle monete che ogni domenica venivano lasciate cadere nel cesto delle offerte. Sentiva l’odore della cera calda, che colava dalle tante candele accese per chiedere una grazia o ricordare i defunti. Poteva sentire l’odore dei fiori davanti all’altare. Se si concentrava, riusciva persino a sentire l’odore della polvere accumulata sui simulacri, così sacri da poter essere solo guardati, ma non toccati. Infine, più intenso di tutti gli altri, percepiva l’odore dolciastro della speranza, la speranza di chi cerca nella fede un rifugio ultimo dal peso della vita o forse solo dal tedio.
Riaprì gli occhi e si guardò intorno e, certo di essere solo, si incamminò lungo la navata centrale, immersa nel silenzio e nell’oscurità. Procedeva con cautela, come se stesse camminando su cocci aguzzi di bottiglia o su tizzoni ardenti. Ogni passo era seguito da una pausa, simile a un’esitazione o ad un breve momento di riflessione. I movimenti erano attenti e controllati, lo sguardo rivolto verso il basso. Doveva stare attento a non calpestare le linee, lo sapeva bene. Un piede su un quadrato, l’altro piede su un altro. Il suo obiettivo era non toccare, neanche con la punta della scarpa, le linee tra una mattonella e l’altra.
Arrivò in fondo alla navata e si fermò a osservare le statue di due enormi angeli di bronzo, che sorreggevano un piccolo dipinto della Madonna col Bambino. La luce tremolante delle candele faceva ondeggiare le ombre in modo appena percettibile e gli dava l’impressione che le ali degli angeli si muovessero, imponenti e minacciose. Si avvicinò un po’ di più al quadro e rimase immobile a guardarlo. La tela era consumata e una ragnatela di crepe si diramava su tutto il dipinto, andando a scalfire il volto etereo di Maria. I colori erano sbiaditi, la figura del Bambino si confondeva con lo sfondo e della Madre si scorgevano a malapena le forme. Eppure, lui sapeva che se avesse alzato lo sguardo, due occhi lucenti e profondi, più vivi che mai, lo avrebbero guardato dall’alto. Il tempo aveva mantenuto intatti gli occhi della Madonna, che da secoli rimanevano immobili a osservare. Odiava quegli occhi, ne aveva paura, ma non poté fare a meno di alzare lo sguardo. Come ogni sera, furono proprio quegli occhi, che scrutavano dentro di lui, a convincerlo, a costringerlo a voltarsi e a incamminarsi verso il confessionale, mentre le campane suonavano le cinque.
Si inginocchiò sul legno duro del confessionale e sorrise al prete di fronte a lui. Imitando i suoi movimenti, si fece il segno della croce e recitò: “Perdonami Padre, perché ho peccato”.
«Ciao Dante, mi fa piacere vederti. Questa tua assiduità mi conforta sulla forza della tua fede, ma quali peccati puoi aver commesso da ieri, che ti turbano tanto?»
«C’è una cosa che non ti ho mai detto, almeno, non te l’ho mai detta per intero. Sai avevo paura che si sapesse…»
«Ma cosa stai dicendo? Sai benissimo che il segreto della confessione è una delle regole più sacre per qualsiasi sacerdote, in più sei mio amico fin dalla scuola elementare. A chi vuoi che lo dica?»
«No, non fraintendermi. In realtà sono io che mi sento talmente in colpa che non so come cominciare».
«Dante, forse è meglio che cambi confessore. Il fatto che siamo amici di vecchia data in qualche modo ti può condizionare. Temo che tu veda in me più l’amico che il sacerdote, ma ricorda che in questo momento non sono il Guido Mancini che ti dribblava come e quando voleva, ma don Guido, il ministro di Dio, tramite il quale ti puoi riconciliare con lui».
Dante sembrò allarmato: «No, Guido! No! Ho bisogno di parlare con te. Solo tu puoi capirmi». Ma subito si ricompose.
«Dimentichi, ancora una volta, che non sono io a capirti e a giudicarti, ma…» – E con la mano accennò in alto a sinistra, dove stava l’immenso crocefisso che la semioscurità faceva sembrare sospeso a mezz’aria. Dante si voltò, istintivamente, vide il volto barbuto, il corpo magro, coperto dal solo perizoma, e il figlio di Dio gli sembrò un fachiro che stava levitando. Rabbrividì. Cercò di non pensare a quegli occhi inquisitori che potevano vedere ogni cosa e iniziò la sua confessione, titubante.
«Non ho mai avuto una relazione stabile, questo lo sai. Ho frequentato tante donne, più di quante mi piaccia ammettere, ma non sono mai riuscito a trovare la mia donna ideale. Ogni volta mi illudo di averla trovata; ne ho conosciute tante di ragazze che chiunque troverebbe perfette sotto ogni punto di vista: intelligenti, spiritose, belle. Eppure, dopo un solo appuntamento mi rendevo conto che a tutte loro mancava qualcosa; erano belle solo esteriormente, non erano belle dentro. Passavo con loro serate piacevolissime, ricche di conversazioni brillanti, di risate. Poi, guardavo dentro di loro e non trovavo niente, niente che fosse speciale, niente che potesse soddisfarmi veramente. Nessuna bellezza interiore».
«Dante, non mi sembra che ci sia niente di così terribile da temere di confessare»
«Cerca di capirmi. Io con tutte quelle donne non ho solo parlato, mi vergogno anche solo a pensarci. Sono state così tante e ho peccato così tante volte. In quei momenti non pensavo a quelle donne come possibili compagne per la vita, per creare una famiglia, pensavo soltanto al mio piacere». Dante teneva gli occhi bassi e si stringeva le mani con una tale forza che il prete riusciva a vedere le nocche sbiancarsi.
Don Guido lo guardò con affetto: «Ti ricordi cosa disse la Carmignani quando ci fece il quinto canto dell’Inferno?»
«A che proposito?»
«Perché Dante mette i lussuriosi nell’antinferno?»
«Ah, sì, perché aveva paura di finirci lui stesso e si stava preparando un posto non troppo terribile!»
I due amici risero, sommessamente: dopo tutto erano in chiesa.
«Anch’io ho elaborato una teoria sulla lussuria e ho un’opinione diversa dalla Carmignani».
«Spara».
«Sai qual è il primo comandamento che Dio ha dato all’uomo?»
«Non mangiare la mela?»
«Niente affatto, quello viene molto dopo. Il primissimo comandamento, proprio nel primo capitolo della Genesi è “andate, moltiplicatevi e riempite la terra”».
Dante lo guardò senza capire.
«Voglio dire: Dio, sapendo quanto sia disubbidiente l’uomo, non gli ha dato solo il comandamento, ma anche un istinto, un’immensa brama di riprodursi. Perciò, fra tutti i peccati, la lussuria è quello che si trasgredisce più spesso e più volentieri. E, come prete, non lo dovrei nemmeno pensare, forse Dio è più indulgente quando si pecca a quel modo; perché sa che un po’ è colpa sua».
«Sei un prete blasfemo».
«Sono un prete che crede in un Dio clemente e misericordioso. Lo stesso che ha perdonato all’adultera. “Vai e non peccare più”».
«E se torno a peccare?»
«Lo so, alla dottrina ci dicevano che i presupposti per il perdono sono: la confessione, il pentimento per il peccato e il proposito di non commetterlo mai più, ma sono più di vent’anni che curo le anime e che ascolto i peccati dei miei parrocchiani. Ti assicuro che tutti ripetono sempre gli stessi errori. Sono sicuro che quando si confessano sono realmente contriti, come lo sei tu in questo momento, ma poi la loro natura li vince: gli iracondi continuano a essere iracondi, gli accidiosi accidiosi e così via»
«Che devo fare, allora, se tornerò a peccare?»
«Nulla, non dirmelo nemmeno, tanto so che la tua natura di porterà a peccare di nuovo nello stesso modo, a meno che tu non trovi la compagna che fa per te; quella “bella dentro”, per usare le tue parole, che ti auguro di trovare al più presto. Facciamo che questa tua confessione e la mia assoluzione valgano anche per le prossime volte. Tanto so che il Signore vedrà il tuo sincero pentimento e sarà indulgente. E ora, ti assolvo, amico mio, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Anche se non hai confessato il tuo peccato più grande: tu non credi nell’infinita misericordia di Dio. La penitenza che ti assegno è quella di pregare il Signore affinché ti conceda la serenità che non riesci a trovare. Prega finché non ti sentirai meglio dentro. Nulla è meglio per una creatura che parlare a tu per tu col suo creatore. Recita l’atto di dolore».
E mentre Dante cominciava a cantilenare “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore per i miei peccati …” don Guido guardava l’amico e non capiva se le sue ossessioni lo irritassero o lo preoccupassero di più. Dante aveva tutto; era ancora un bell’uomo, affascinante, stare con lui era gradevole, non aveva certo problemi economici. Non avrebbe avuto neppure problemi a trovarsi una buona compagna, se non avesse avuto le sue ossessioni a tormentarlo. Bella dentro. Ma che vuol dire bella dentro? Mah, io sono un prete, che ne posso sapere io di queste cose? si disse don Guido, mentre Dante si alzava e si congedava con un sorriso e un cenno della mano.
Ora lo vedeva inginocchiato col capo chino sulle mani giunte. Scosse la testa, si alzò e tornò in canonica. Avrebbe chiuso la porta principale della Chiesa più tardi, quando Dante se ne fosse andato; ora era meglio lasciarlo da solo.
Dopo essere rimasto raccolto in preghiera per parecchi minuti, Dante si alzò. Passando davanti al crocifisso e, con le mani congiunte, rivolse un’ultima preghiera silenziosa a Dio, consolandosi al pensiero dell’infinita misericordia divina. Si rialzò e uscì rapidamente dalla Chiesa, dimenticando che per terra c’erano le linee che non avrebbe dovuto calpestare.
Il freddo pungente di novembre lo fece rabbrividire e si strinse nel giacchetto, infilando le mani in tasca. Illuminato dalla luce dei lampioni, s’incamminò, spedito, verso la moto, una Triumph Bonneville t120. Si infilò il casco, accese il motore e, rombando, si lasciò alle spalle la città. Le macchine gli scorrevano accanto veloci e i fari che si ingrandivano, a mano a mano che si avvicinavano, lo facevano pensare agli occhi di belve feroci, pronte a spiccare il salto per balzargli addosso.
Il sobbalzare della moto lo fece sussultare. Si guardò intorno e si accorse stupito di essere sul vialetto sterrato di casa. Gli succedeva spesso di alienarsi completamente dal mondo e di fare le cose in automatico, lasciandosi guidare dall’abitudine. Uscito dalla chiesa aveva pensato che le parole di Guido lo avessero rasserenato, ma nel tragitto verso casa si era accorto che, in realtà, gli avevano lasciato anche un’angoscia che non riusciva a spiegarsi, un’angoscia che sapeva di mandorle amare. Cercò di deglutire, con la speranza di riuscire a inghiottire anche quel malessere che gli stringeva le viscere.
Parcheggiò la moto vicino alla stalla, spense il motore e saltò giù, spolverandosi i pantaloni sporchi della polvere che la moto aveva alzato procedendo sullo sterrato. Alle sue spalle sentì i grugniti di saluto dei suoi cinque maiali, un verro e quattro scrofe large black purissimi. Avrebbe pensato a dar loro da mangiare dopo, aveva bisogno di una doccia calda per togliersi di dosso lo smog della città e il sudore freddo del turbamento.
Quando aprì la porta il caldo della casa lo avvolse come miele. Nonostante le pareti di pietra e i soffitti alti, Dante non aveva mai sentito freddo tra quelle mura. La sua casa era perfetta: isolata, circondata dal silenzio e dal bosco, abbastanza lontana dalla città così che non arrivassero le luci insistenti delle macchine e dei locali. Poteva non essere il massimo della comodità, per andare a lavorare impiegava sempre più di mezz’ora, un’ora quando c’era traffico, ma a lui piaceva viaggiare sulla sua moto. Non invitava mai gli amici a casa, non sarebbe riuscito a sopportare persone che toccassero le sue cose e che curiosassero in giro, sfuggendo al suo controllo. Guido era venuto un paio di volte, ma lui era diverso. Lo conosceva e sapeva cosa fare e non fare. Le ragazze, invece, le aveva sempre portate a casa, perché gli piaceva cucinare per loro le ricette più raffinate, come solo lui sapeva fare, attento sia a mescolare i sapori nel modo giusto, sia a presentare i piatti in modo impeccabile. Funzionava sempre. Se hai la pancia piena e hai bevuto un po’ di vino, cosa importa se sei lontano dalla città? Nessuna di loro si era mai lamentata dopotutto.
Appeso il giacchetto vicino alla porta, facendo attenzione a non formare neanche una piega, si tolse le scarpe e le allineò subito sotto. Accese le luci in salotto e, dirigendosi verso il bagno, prese al volo un cd dei Talking Heads, Speaking in Tongues, e lo mise nello stereo. Arrivato in bagno, si tolse i vestiti e li piegò accuratamente sul lavandino. Si guardò allo specchio e valutò se farsi la barba o meno. Di solito la faceva solo la mattina, ma quella era una serata speciale, come tutte le sere in cui andava a teatro. Lanciò un’altra occhiata alla figura riflessa nello specchio e decise che per questa volta una sola rasatura poteva andar bene. Si sarebbe dato un po’ di Lucky Tiger dopo la doccia, quel dopobarba dall’odore fresco e senza alcool, perché l’alcool secca la pelle. Entrò nella doccia mentre la voce di David Byrne riempiva la casa. Iniziò a insaponarsi col suo bagnoschiuma al miele, canticchiando Burning down the house, che riusciva a sentire nonostante lo scrosciare dell’acqua. Altro pregio di avere una casa in campagna: poteva cantare, urlare e mettere la radio a tutto volume e nessuno sarebbe venuto a lamentarsi. Dopo il bagnoschiuma, una crema doccia alle mandorle, per rendere la pelle più morbida e profumata. Infine, per il viso, un gel esfoliante alle erbe, per rimuovere le impurità accumulate durante il giorno e illuminare la pelle.
Slippery People suonava ora in tutta la casa. Quarta traccia dell’edizione 2006 del disco. Questo voleva dire che era sotto la doccia da più di quindici minuti (e quarantacinque, se la sua memoria non lo ingannava, cosa che succedeva di rado). Aveva letto da qualche parte che stare per tanto tempo sotto l’acqua calda era necessario per soddisfare il naturale bisogno umano di sentirsi amati e al sicuro. Stronzate secondo lui. Preferiva dare ragione a Max Westenhöfer e credere di derivare da una scimmia acquatica che gli aveva trasmesso geneticamente questa passione per l’acqua e per le docce lunghe. Ridacchiò tra sé. Sarebbe stato divertente intavolare una conversazione del genere con i suoi colleghi barbosi all’ospedale. L’avrebbero preso per pazzo. Eppure, non era una teoria così folle. Al corso di Biologia Genetica aveva studiato che negli esseri umani esiste un particolare riflesso, il diving reflex, che permette all’organismo di resistere per lungo tempo sott’acqua. Anche i neonati ce l’hanno. E secondo lui tutti erano debitori alle scimmie acquatiche per questo. Aveva un senso da un punto di vista scientifico? No, ma a lui che importava? Mica era un biologo, queste erano solo le sue teorie senza senso che lo intrattenevano durante la notte, quando non riusciva a dormire.
Si decise a uscire dalla doccia e ad abbandonare controvoglia quel calore tanto piacevole. Si strofinò velocemente i capelli con l’asciugamano, si piazzò davanti allo specchio e iniziò la sua solita routine post doccia: una lunga spazzolata ai denti, con dentifricio sbiancante, crema idratante senza parabeni, dopobarba. I capelli si sarebbero asciugati da soli, usare il phon li avrebbe soltanto rovinati.
In camera, aprì l’armadio, ordinatissimo e profumato come sempre. Tirò fuori un pullover girocollo bordeaux Fred Perry, Pantaloni in twill chino blue navy di Brooks Brothers e calzini e mutande neri, entrambi Calvin Klein. Tocco finale le sue Dr. Martens nere, quelle andavano bene con tutto. Una spruzzata di profumo, rigorosamente Armani, ed era pronto.
Andò in cucina e aprì il frigorifero. Guido lo aveva sempre preso in giro, scherzando sul fatto che sembrasse un’enorme cella frigorifera. Gli piaceva tenere le cose in ordine anche lì dentro, che male c’era? Tirò fuori due sacchetti trasparenti che contenevano quattro larghe fette di carne. Riusciva anche a vedere il sangue che ne fuoriusciva e che si insinuava nelle pieghe dell’involucro. Non importava scaldare la carne, i maiali non sono dei gourmet. Lui avrebbe mangiato più tardi, magari dopo lo spettacolo, adesso non aveva tempo per cucinare. Si aggiustò i capelli indietro con le mani, prese i due sacchi e tornò in salotto. Sulle note di This must be the place prese il giacchetto di pelle marrone e uscì di casa, avviandosi velocemente verso la stalla.
I maiali lo salutarono nuovamente con piccoli grugniti. Non fallivano mai nel riconoscerlo. Non per il suo viso o perché fossero coscienti di chi fosse, ma perché riconoscevano il suo odore. I suini sono così, hanno un olfatto eccezionale e riescono a sentire anche il più insignificante degli odori. Lo aveva sempre affascinato pensare che i maiali venissero usati per la ricerca del tartufo, ma sapeva anche che questo loro olfatto raffinato non sempre si poteva ricollegare a cose piacevoli come il tartufo. Aveva visto con i suoi occhi quanto feroci e spietati potessero diventare, anche con i loro piccoli. Toccare un maialino appena nato era come condannarlo a una morte certa. E dolorosa. La mamma lo avrebbe schiacciato sotto il suo peso e poi divorato. Come Saturno che divora i figli. Con lo stesso sguardo feroce e quasi disperato che ammirava nella stampa del famoso quadro di Goya che aveva appeso in camera.
Si avvicinò per guardarli meglio e per controllare che fosse tutto a posto e che stessero bene. Sembrava di sì. Aprì i sacchetti e lanciò le fette di carne sanguinolenta dentro al recinto.
>>> FINE PRIMA PARTE<<<
A domani con il gran finale di Bellezza interiore