Ci sono autori che inconsapevolmente finiscono per segnare e lasciare un imprinting, un’impronta duratura del loro passaggio nell’immaginario e nei gusti di chi legge, specie se l’ipotetico lettore è per così dire “vergine ed inesperto”: leggere Bukowski a 17/18 anni, non è certamente come leggerlo a 30 o a 40 quando la maturità consente un approccio diverso, più disincantato e consapevole.
Ho cominciato a leggere Charles Bukowski da ragazzina, a quel tempo pensavo che avrei potuto cambiare il mondo e che la lettura fosse un mezzo per poterlo fare ma non sapevo che il mondo, inevitabilmente, avrebbe finito per cambiare me, almeno in parte. L’ho “incontrato” per caso e non fra i libri o gli autori trattati a scuola (figuriamoci!), l’ho incontrato fra le pagine di una rivista letteraria che penso non si pubblichi neanche più, una rivista passatami dal mio allora ragazzo, oggi marito, che masticava (e mastica ancora) di letteratura e poesia e spesso mi coinvolgeva nelle sue letture, cosa che non ha mai smesso di fare, in verità.
Lo stile di scrittura, l’aura di maledetto che gli aleggiava intorno, il sesso, l’alcool, la vita totalmente sregolata, la genialità che caratterizzavano Charles Bukowski lo hanno fatto risaltare ai miei occhi di diciassettenne come il prototipo dell’artista vero. Il vero artista è colui che non sa di esserlo e forse neanche vuole esserlo: la genialità non riconosce mai se stessa e penso che i veri geni siano così, totalmente inconsapevoli. E dal momento che il tempo e la maturità non mi hanno fatto cambiare idea su di lui, seppur adesso sono in grado di capirne tutta la fragilità di uomo, ho pensato di comunicarglielo immaginando che, in qualche modo, possa leggere e come nel suo stile, non propriamente formale ed elegante, magari dire: “Che puttanata è mai questa?” (mi scuso per il termine forte ma saprai che per Charles Bukowski, se un minimo lo conosci, le parolacce sono quasi litanie recitate a memoria).
Caro Bukowski, anzi usando il tuo nome per esteso saresti Henry Charles “Hank” Bukowski Jr, finalmente ti scrivo.
E so che già il “caro Bukowski” ti farebbe allergia (meglio usare Hank come amichevolmente preferivi essere chiamato): approcciarsi ad uno come te, con uno scontato “caro” è già il peggior modo di cominciare. Uno che afferma: Amo i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai. Quelli persi, andati, spiritati, fottuti. Quelli con l’anima in fiamme, ad una lettera che comincia con un “caro” può soltanto farsi una grassa risata, oppure no? Chissà che il mio “caro” non ti faccia piacere, ora che osservi tutto da un’altra dimensione…
Proprio la frase sopra riportata letta tanti anni fa, molto prima che i social ne facessero link in tutte le salse, ha catalizzato la mia attenzione di ragazzina amante degli scrittori anticonformisti, strani, diversi, di quelli con l’anima in fiamme come la tua. È stato il tuo essere borderline che mi ha spinto a leggerti. Perché, caro il mio scrittore-poeta-giornalista-aforista, semi-pazzoide, semi-alcolizzato, semi-sesso-dipendente, se non sei stato borderline tu, vorrei vedere chi lo è mai stato… Sempre ai limiti, ai bordi, sempre ai confini fra follia e razionalità, fra cinismo e sensibilità, fra senno e ragione.
Il tuo modo di scrivere, il tuo stile ai limiti del decente anzi spessissimo indecente, ti hanno consegnato intatto alla fama: se hai incantato e ancora incanti intere generazioni è grazie al tuo essere autentico, senza filtri, proprio pazzo così, al naturale. E io a 17 anni ti ho idealizzato al pari di un attore o cantante di successo e mentre le mie coetanee impazzivano per i divi bellocci e alla moda, io ho avuto un ideale di uomo-scrittore con l’aureola di maledetto, uno che se ne fregava di piacere per il suo aspetto fisico (bello di certo non eri), anzi se ne fregava di piacere e di ogni altra cosa, a prescindere; uno che beveva come e più di una spugna; che parlava e riportava nei suoi scritti un linguaggio da fare arrossire pure i frequentatori di quei bordelli in cui bazzicava e di cui ha raccontato in romanzi e poesie, proprio uno in antitesi con il mondo e con sé stesso, era quello il mio ideale. Eri tu.
Stai ridendo da lassù? Oppure guardi anche tu con tenerezza a quella insolita ragazzina che sono stata? Capisco se ridi. Posso capirlo. Forse a 17/18 anni ero molto strana e in antitesi con il mondo anch’io. O forse era solo il mio desiderio di andare oltre gli inevitabili conformismi imposti dal vivere comune che mi spingeva a leggerti e a cercare fra i tuoi romanzi e le tue strane poesie, parole che mi assomigliavano e che sentivo vere e mie.
Io mi innamorerei pure di te, ma non ho più soldi per la psicanalisi.
Forse lo ero e magari sono rimasta, innamorata del tuo modo di essere scrittore e poeta, del tuo realismo sporco, come la critica lo definisce… Ed è molto probabile che avrei avuto (e probabilmente ho ancora) bisogno di psicanalisi, se sei stato e resti un mio mito personale. Ora, a distanza di circa quarant’anni, il tempo e l’età mi hanno insegnato che dietro ad ogni atteggiamento estremo (e tu ne avevi tanti, spesso e volentieri) si nascondono estreme fragilità, dietro ad ogni vizio ad ogni dipendenza c’è sempre un vuoto o una voragine da colmare, ora intuisco e capisco la tua sofferenza di uomo che aveva una sola via di salvezza, una sola via di fuga: scrivere.
Hai scritto, hai scritto tantissimo Hank, fra romanzi, racconti e raccolte di poesie si possono contare più di quaranta libri che raccontano la società americana, le sue pubbliche, false e apparenti virtù, i suoi vizi nascosti e privati. Hai raccontato la tua vita di immigrato tedesco, nato il 16 Agosto 1920 in una piccola cittadina tedesca nei pressi di Colonia, emigrato con la famiglia all’età di tre anni a Los Angeles, negli Stati Uniti. Hai narrato di come a soli tredici anni il vizio del bere e le cattive frequentazioni, cambiarono la tua vita. Poi il diploma e l’abbandono della casa paterna, il vagabondaggio segnato dall’alcool e da una sequenza infinita di lavori saltuari, infine l’approdo alla relativa stabilità di impiegato archivista presso un ufficio postale di Los Angeles.
I tuoi racconti, le tue strane poesie, spesso scritte senza l’uso del maiuscolo o della punteggiatura, hanno trovato spazio sulle pagine delle riviste underground e rivelano la tua rabbia verso la vita, l’amarezza perenne del giusto di fronte ai torti e all’insensibilità degli altri uomini. Tutta la tua opera è intrisa di quell’antiamericanismo frutto di un’opposizione feroce e radicale alla società del tempo che ha fatto di te un uomo, uno scrittore, un poeta perennemente in rivolta, costantemente acceso da uno spirito di opposizione verso la faccia corrotta dell’America dream, quel sogno americano che non conosce la voce, le paure e i tormenti di quella vasta minoranza che abita la terra di nessuno fra la brutalità disumana e la disperazione impotente.
Il sesso, l’alcol, le corse dei cavalli, lo squallore delle vite marginali, l’ipocrisia del ‘sogno americano’ sono i temi sui quali vengono intessute infinite variazioni grazie a una scrittura veloce, semplice ma estremamente feroce e corrosiva.
Così scrivono ancora oggi di te e delle tue Storie di ordinaria follia, per citare uno dei tanti libri usciti da una penna corrosiva, fuori dal comune e da ogni senso logico e benpensante. Mentre per altri critici, saresti soltanto un individualista, arrabbiato con tutti e con nessuno, abbastanza indifferente a quello che accade più lontano dei suoi piedi, vagamente qualunquista.
Mi hanno piantato dentro così tanti coltelli che quando mi regalano un fiore all’inizio non capisco neanche cos’è. Ci vuole tempo.
Queste parole, probabilmente non sono scritte a caso, sono parole di chi non si fida, parole di chi ha ricevuto tanti calci in bocca, parole di chi conosce l’ipocrisia umana: parole anch’esse diventate famose attraverso i social, usate e forse abusate da chi, magari, non conosce niente di te. Com’è vero che le parole di uno scrittore sopravvivono al tempo, e alla sua stessa esistenza e al senso stesso che vorrebbero avere.
Io che scrivo questa lettera assurda, invece continuo a leggere le tue altrettanto assurde Poesie e penso che ad uno come te non si riservano mezze misure: o lo si ama follemente o lo si detesta visceralmente. La tua forte personalità di artista, poggia sulla fragile base di uomo che annega nell’alcool, nel sesso, nella vita vissuta ai confini del lecito, le sue debolezze. Proprio questo caro Hank-Charles ti rende umano, vero, ancora vivo e genuino, uomo della strada come tanti ma ti fa anche scrittore e poeta in cui riconoscersi e specchiarsi.
[…] le parole non sono/per tutti./E per la maggioranza,/ esistono/ soltanto per poco./ Le parole sono/ uno dei più grandi/ miracoli/ al mondo,/ possono illuminare/ o distruggere/ menti,/ nazioni,/ culture./ Le parole sono belle/ e pericolose./ Se vengono a trovarti,/ te ne accorgerai/ e ti sentirai/ il più fortunato/ della terra. Nient’altro avrà più/ importanza/ e tutto sembrerà importante./ Ti sentirai/ il dio sole,/ riderai del tempo che fugge,/ ce l’avrai fatta,/ lo sentirai/ dalle dita/ fino alle budella,/ e sarai diventato,/ finché/ dura,/ un fottutissimo scrittore/che rende possibile/ l’impossibile,/ scrivendo parole,/ scrivendole,/ scrivendole. (Le parole)
Le tue parole sono rimaste a futura memoria piene di significati profondi, le mie adesso finiscono qui, in questa insolita dichiarazione a posteriori: sono arrivata tardi, a distanza di molti anni dalla morte che, in seguito ad una leucemia fulminante, il 9 Marzo del 1994, ti tolse alla vita e ai vizi ma consegnò integra ai posteri la tua arte. In quanto a me, scriverti adesso è stato come si dice meglio tardi che mai, almeno ora conosci gli effetti che hai prodotto in una ragazzina di tanti anni fa… E se continui a sorridere o a sghignazzare, pazienza, ad un mito si perdona tutto, forse.
Voglio finire questa improbabile lettera con una frase che potrà apparire scontata o ridicola a te, come a chi leggerà… Sai che c’è, mi interessa poco. A costo di sembrare stramba e di giocarmi la reputazione di persona mentalmente sana e razionale (e poi come sappiamo non c’è mai sanità di mente senza follia nascosta), la sottoscritta finisce così: con affetto sincero, Pina.