Caro iCrewer oggi ti parlo di un personaggio storico che si situa storicamente tra gli estremi sviluppi della cultura arcadico/razionalistica e le prime decise formulazioni della civiltà illuministica:
Carlo Osvaldo Goldoni – Venezia 1707.
Proverò a farti comprendere come la popolarità dell’opera di Carlo Goldoni esista tutt’oggi.
Cominciamo con un breve excursus:
Sono nato a Venezia, nel 1707, in una grande e bella casa, situata tra il ponte dei Nomboli e quello della Donna onesta, all’angolo della calle di Ca’ Centanni, nella parrocchia di San Tomà. (tratto dall’autobiografia Mémoires)
Ca’ Centani, o Centanni, meglio conosciuta come la “Casa di Carlo Goldoni”, fu eretta nel XV secolo. Si tratta di un tipico palazzo gotico di non eccessiva dimensione, ma che presenta ancora oggi, nonostante le svariate ristrutturazioni, l’impianto e gli elementi tipici dell’architettura civile veneziana tra la fine XIV e l’esordio del XV secolo. L’idea di trasformarlo in una struttura museale da dedicare, in nome del grande commediografo, a tutta l’arte drammatica italiana nacque nel 1914, ma il progetto si fermò a causa della guerre, per essere finalmente completato nel 1953.
Nacque in una famiglia di condizioni borghese. Padre medico, sempre in movimento in cerca di sistemazione economica, costringendo il figlio nel suo vagabondare. I primi studi Goldoni li fece a Pisa dai Gesuiti, poi a Rimini da dove fuggì per seguire una compagnia di comici, la sua passione per il teatro si era manifestato sin dall’adolescenza. Studiò legge a Pavia, ma fu cacciato dal collegio dove era ospite per aver composto una satira sulle donne della città. Riprese gli studi ed in seguito diventò coadiutore aggiunto alla cancelleria criminale di Chioggia, poi come caoadiutore alla cancelleria di Feltre. La morte del padre lo obbligò a prendersi cura della madre, per cui si affrettò a laurearsi in legge a Padova avviandosi alla professione di avvocato.
La vocazione teatrale, però, era troppo viva in lui e la coltivava con continue letture sulla letteratura del teatro.
Fu un drammaturgo estremamente prolifico, molte opere teatrali, appartenenti a generi differenti: commedie, tragicommedie, tragedie romanzesche in versi, libretti per opere profonde e libretti per opere giocose e, infine, un memoire in cui consegnò ai posteri la sua autobiografia.
L’intera opera goldoniana si offre come un’ininterrotta serie di situazioni, si svolge attraverso un “quotidiano parlare”, ad una attenta rappresentazione del reale, volta a riportare nel teatro proprio quella realtà’ che il fenomeno della commedia dell’arte, attraverso la propria degenerazione, aveva allontanato; Il linguaggio dei personaggi, intriso di dati concreti, si risolve tutto nei loro incontri mostrandosi indifferente alle tradizionali prospettive letterarie e formali.
Passando continuamente dall’Italiano al veneziano e viceversa, Goldoni dà spazio a diversi usi sociali del linguaggio, in base alle varie situazioni in cui vengono a trovarsi i personaggi delle sue opere. Il suo italiano, influenzato dal veneziano e caratterizzato da elementi settentrionali, è quello del mondo borghese, lontano dalla purezza della tradizione classicistica toscana. Il dialetto veneziano non è per Goldoni uno strumento di gioco, ma un linguaggio concreto e autonomo, diversificato dagli strati sociali dei personaggi che lo utilizzano; riscatta la vita soffocata dei subalterni attraverso una lingua e una invenzione teatrale capaci di smascherare ciò che nel passato è stato nascosto e silenziato: il volto.
Ci offre l’immagine di una trionfante affermazione della missione teatrale, di un sicuro proposito di riforma sostenuto da una spontanea gaiezza. La figura appare come un’immagine che rappresenta cordialità, disposizione al sorriso e alla gioia, disponibilità umana. Dietro quest’immagine gaia, vi è un’inquietudine, scaturita dall’estraneità dell’io narrante rispetto alle vicende, che si trasforma in un continuo interrogarsi su se stesso e sul mondo, in una forma di inquieta ipocondria.
Per tutta la sua vita, Goldoni è alla ricerca di legittimazione di se stesso, del proprio fare teatro: ciò converge con il suo rifiuto di una tranquilla professione borghese. Non essendo nato all’interno dell’ambiente teatrale e venendo da un contesto diverso, non riesce ad accettare il teatro così com’è, ma cerca di riformarlo, cercando di fondare un nuovo teatro onorato.
Innovare significa, però, scontrarsi contro la tradizione, perciò Goldoni fu oggetto di numerose critiche, provenienti in particolare dagli accademici e conservatori del suo tempo. A questi che lo definivano plebeo, volgare, triviale, Goldoni rispondeva che “Coloro che amano tutto all’antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que’ Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno non l’hanno adoperata”.
Goldoni rappresenta una nuova figura per quanto riguarda gli intellettuali del 700; mentre gli scrittori sono privilegiati e benestanti, egli vive dei profitti della sua professione intellettuale. Anticipa così la figura dello scrittore che si affermerà nella società borghese dell’800. Inoltre non scrive solo per un pubblico di letterati, ma per il commercio. Per vedere lo spettacolo bisogna pagare, e una parte degli utili vanno anche al capocomico e al caposala, che a loro volta investono il denaro nel teatro perchè vogliono ricavarne dell’altro; pertanto bisogna andare incontro ai gusti del pubblico e attirare, quindi, molti spettatori; una condizione questa che sarà propria dell’età successiva.
Fin da quando era costretto ad esercitare la sua arte oratoria nei tribunali anziché in un teatro, Carlo Goldoni, fu sempre convinto della necessità di attribuire un ruolo centrale agli scrittori impegnati nel teatro, allo scopo di restituire la necessaria dignità letteraria alle opere teatrali, scritte non solo per essere rappresentate ma anche per essere lette.
Sostenuto dalla fiducia di grandi capocomici e impresari del suo tempo, Goldoni costrinse gli attori a un copione scritto che doveva essere imparato a memoria; ma la vera novità del teatro goldoniano è il passaggio dalla commedia di intreccio a quella di carattere; infatti, abolisce le maschere ovvero la presenza di personaggi predeterminati e stereotipati e il necessario finale predefinito che da quei tipi psicologici conseguiva necessariamente.
Pur non essendo un uomo di vasta cultura, grazie ai suoi frequenti viaggi in Italia e all’amicizia con personalità straniere presenti a Venezia, conobbe realtà europee più avanzate. Rispettava i principi e i valori fondamentali del ceto borghese, che riprendevano la filosofia dei lumi. Aveva un senso della socialità, dei rapporti che legano gli uomini e tutto ciò che può compromettere questo vivere sereno, come la menzogna, l’ipocrisia, è considerato dannoso.
Emblematica, a tal proposito, la prefazione del Servitore di due padroni, dove il drammaturgo concede, agli attori che reciteranno la parte di Truffaldino, di introdurre le loro personali invenzioni e raccomandando di evitare gesti scurrili per non compromettere la dignità dell’opera.
Tra le tante opere posso ricordarti: Il Belisario, la sua prima tragicommedia, Don Giovanni tenori, Il Rinaldo, Giustino, Il Momolo cortesan, Il Momolo sul brenta, Il mercante fallito, La famiglia dell’antiquario, Il bugiardo, La bottega del Caffè.
E tante altre ancora, tra cui spicca La locandiera, una delle opere di Goldoni che hanno goduto di maggior fortuna critica e di pubblico, una di quelle che meglio riassume le caratteristiche del teatro goldoniano, e che io adoro.
La locandiera è una commedia in tre atti, composta nel 1751, al termine della collaborazione tra il commediografo e il teatro Sant’Angelo, e messa in scena all’apertura della stagione di carnevale 1752-1753.
Si nota innanzitutto la riuscita caratterizzazione dei personaggi che, in maniera opposta a quanto succede con le “maschere” fisse della Commedia dell’arte, sono definiti ciascuno in modo individuale e peculiare. A svettare su tutti è ovviamente la figura di Mirandolina: intelligente e determinata, bella e consapevole di sé, la “locandiera” ha come primo interesse il profitto della sua attività e quindi sa, sia disimpegnarsi con stile dai mediocri tentativi di seduzione del Conte e del Marchese, e sia tener testa all’orgoglio borioso del Cavaliere, facendolo infine capitolare. Mirandolina è così regista e attrice dell’azione scenica, tanto da rivolgersi spesso al pubblico coinvolgendolo nella sua finzione e spiegando in dettaglio come agirà per battere il “nemico”. La locandiera si sdoppia infatti tra l’azione e la premeditazione delle battute in controscena. Attraverso lei, Goldoni da un lato stabilisce un dialogo diretto con il suo pubblico e dall’altro pone in rilievo l’arma con cui Mirandolina trionfa, ovvero l’intelligenza.
Del resto questa, insieme con l’intraprendenza e il senso del dovere, è la dote della nuova classe borghese, che nella Venezia di metà Settecento è in piena ascesa; tutt’altra cosa rispetto all’inutilità e al parassitismo della vecchia classe aristocratica, improduttiva ed arroccata sul superato concetto del prestigio e del rispetto del titolo. Il dinamismo di Mirandolina è anche la dote che mette in scacco la misoginia e il carattere superbo del Cavaliere. La conclusione della commedia è però nel segno dell’ordine. Mirandolina, pur vincente, ammette d’aver esagerato e rientra nei ranghi con il matrimonio con Fabrizio, come le era stato consigliato dal padre morente. Questo del resto è in linea con la finalità etica che, con un pizzico d’ironia, Goldoni indica nella prefazione intitolata L’autore a chi legge; la storia de La locandiera deve mettere in guardia gli uomini dalle illusioni e dagli amari tranelli che le donne sanno, con somma astuzia, architettare.
Il personaggio della Locandiera disegna una figura femminile complessa, che, nel tempo, è stata letta e interpretata in modo vario e diverso: come una onesta e graziosa regina di cuori,; come una donna forte, capace di muoversi nel mondo degli uomini con la lucidità e il distacco di un intellettuale; come una commerciante, la tenutaria di una locanda interessata prima di tutto al suo guadagno e all’affermazione sociale.
MIRANDOLINA: “Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell’onestà. Cambiando stato, voglio cambiar costume; e lor signori ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cedere, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera. “(atto III, scena ultima).
Caro iCrewer trai le tue conclusioni, perchè ciascuno di noi ha un suo speciale modo di rendere il personaggio.
Buon tutto.