Se mi chiedessero qual è stato il primo scrittore che ho amato e letto con passione, dopo Geronimo Stilton probabilmente risponderei Arthur Conan Doyle. Le avventure di Sherlock Holmes mi hanno accompagnata per tutta la vita, da quando da bambina sognavo di diventare un’abile detective a quando ho iniziato l’università e ho deciso di studiare criminologia. Ancora oggi, quando mi trovo davanti uno sconosciuto cerco di fare come Holmes, di osservarlo e di tirare fuori una qualche brillante deduzione… ovviamente con scarsissimi risultati. Insomma, se Sherlock potesse leggermi nel pensiero la cosa andrebbe più o meno così:
Per potermi illudere di essere come il grande Holmes non mi resta che immergermi in uno dei suoi stravaganti casi e rileggere per l’ennesima volta i racconti del Dr Watson. Se anche te sei cresciuto con il mito di Sherlock Holmes è arrivato il momento di andare a scoprire chi è l’uomo che si nasconde dietro il celebre detective dal naso adunco, colui che ha amato, ma soprattutto odiato, il suo personaggio: Sir Arthur Conan Doyle.
La vita
Sir Arthur Ignatius Conan Doyle nacque a Edimburgo il 2 maggio 1859, figlio di Charles, inglese cattolico di origini irlandesi, e Mary Foley, cattolica irlandese. Lo fecero studiare nelle scuole gesuite e, logicamente, divenne agnostico. Si iscrisse alla facoltà di medicina di Edimburgo, laureandosi nel 1881. Nel frattempo scriveva racconti per le riviste. The Mystery of Sasassa Valley, una storia ambientata in Sud Africa, fu la sua prima pubblicazione sul Chambers’s Edinburgh Journal il 6 settembre 1879. Si dedicò alla carriera medica, imbarcandosi prima su una baleniera come medico di bordo. In seguito, aprì anche un ambulatorio, senza grande successo; così, mentre attendeva i rari pazienti, continuava a scrivere racconti. Fu infatti fecondo scrittore, anche se la sua notorietà esplose con un personaggio che lui non amava particolarmente, Sherlock Holmes. E’ ormai arcinota una frase che il vecchio Doyle disse poco prima di morire:
“Se fra 100 anni dovessi essere ricordato solamente come l’uomo che inventò Sherlock Holmes, allora potrò considerare la mia vita un fallimento.”
Arthur Conan Doyle riteneva molto più validi i suoi romanzi storici ma, ahimè, non fu mai apprezzato per i suoi sforzi. Un’altra sua passione era lo spiritismo; nonostante se ne fosse interessato per tutta la vita, in tarda età diventò una vera mania; scrisse anche saggi che, naturalmente, non vennero presi sul serio. Anche se nessuno, mediamente obbiettivo, avrebbe potuto dar credito allo spiritismo, per lo scrittore scozzese era una cosa seria e l’idea che, invece, un personaggio totalmente fittizio come Holmes stava diventando sempre più apprezzato dai lettori non gli andava giù. Si sa che per sbarazzarsi di Holmes e poter scrivere altro in pace (“He takes my mind from better things”, scrisse alla madre), Conan Doyle fece morire il suo detective nel 1893 in L’ultima avventura, ma dovette farlo resuscitare a furor di popolo poco dopo, in L’avventura della casa vuota. Per colmo d’ironia, la sola altra opera che gli valse un discreto successo fu un’altra serie di novelle di pura evasione, The lost world, una sorta di Jurassic Park ante litteram, che è diventata, a cavallo fra gli ultimi due secoli, una serie televisiva, distribuita in Italia nel 2011.
L’investigatore più brillante di sempre, Sherlock Holmes
Inutile girarci ancora intorno, se Conan Doyle ha un posto nella storia della letteratura è unicamente per aver creato il più celebre detective della storia. Arthur Conan Doyle scrisse A Study in Scarlet nel 1886, in tre settimane, e fu comprato dalla Ward Lock & Co. La storia apparve l’anno successivo nel Beeton’s Christmas Annual, ricevendo subito ottime critiche. Si sa che il personaggio di Holmes fu ispirato da Joseph Bell, un professore universitario dell’autore, e sicuramente influenzato dall’Auguste Dupin di Edgar Allan Poe. Il dottor John Watson, invece, deve il suo nome a un collega di Conan Doyle, conosciuto a Portsmouth, il dottor James Watson. Una curiosità: nel racconto emblematicamente intitolato Un caso di identità, pubblicato nel 1891, Conan Doyle incorre in un lapsus e chiama il suo Watson “James”, proprio come l’amico, anziché “John”. Nome a parte, il fedele dottor Watson è molto simile allo stesso Conan Doyle. Oltre alla laurea in medicina, la passione per la scrittura e i baffi (sappiamo che Watson ha i baffi perché sta scritto in Il trattato navale, del 1893), entrambi sono sportivi e galanti con le donne. Conan Doyle fu anche medico di campo durante la guerra boera, quindi 20 anni dopo la guerra anglo-afgana, durante la quale Watson fu ferito alla spalla. Può sembrare strano che l’autore si identificasse in Watson, ma il nostro immaginario del compagno di Holmes è distorto soprattutto dalla sua versione cinematografica, dove spesso fa da spalla comica e non di rado è anche un po’ tonto. Un po’ come Pippo, confronto al quale Topolino giganteggia. Nei racconti non è così. Watson ha una mente brillante, è un uomo d’azione nel quale Holmes ripone piena fiducia; è Holmes a essere un genio talmente al di sopra delle comuni capacità che il pur brillante Watson è sempre un passo indietro rispetto all’amico. Anche Conan Doyle dimostrò, al pari di Watson, di non essere tagliato per l’investigazione: quando la polizia chiese il suo aiuto per risolvere alcuni casi complicati (fino a che punto può arrivare la stupidità umana?), ovviamente non riuscì a cavare il classico ragno dal buco. Anche l’acerrimo nemico di Holmes, il dottor James Moriarty, secondo alcuni è stato ispirato da un personaggio realmente esistito, ossia il feniano John O’Connor Power, più volte arrestato dalla polizia inglese, infine eletto nel parlamento irlandese.
221B Baker Street
Sherlock Holmes ha ottenuto una tale fama da poter reclamare un posto nel mondo reale. La “sua” casa al 221B di Baker Street è stata completamente reinventata ed è diventata un museo. Che siamo nel territorio di Holmes ce ne accorgiamo fin dalla fermata della metropolitana:
Di Holmes si sa praticamente tutto, perfino la data di nascita: il 6 gennaio 1854 alle 2 di notte, circa. Sono quattro mesi esatti prima della nascita di Freud, altro consumatore di cocaina. I due si incontreranno in Soluzione al sette per cento, scritto nel 1974 da Nicholas Meyer, uno degli innumerevoli pastiche che hanno contribuito a rendere eterna la figura del nostro detective.
Sherlock Holmes al cinema
Dove non è arrivata la letteratura è arrivato il cinema, che ha raccontato uno Sherlock adolescente in Piramide di paura (che da piccola mi ha completamente terrorizzata) di Barry Levinson
o una geniale Vita privata di Sherlock Holmes di Billy Wilder; il più bel film mai girato su Holmes del quale consigliamo vivamente la visione.
Ma i primi film in assoluto su Sherlock Holmes furono quelli che vedevano come protagonista Basil Rathbone che, dal 1939 al 1946, prestò il volto al geniale detective per ben quattordici pellicole. Rathbone venne a lungo considerato la perfetta reincarnazione del personaggio nato dalla penna di Arthur Conan Doyle e soltanto quarant’anni dopo, con la serie Le avventure di Sherlock Holmes, sarebbe arrivato uno Sherlock Holmes ancora più convincente; quello di Jeremy Brett. Affascinante, alto e dinoccolato, dal volto magro e il naso adunco, Brett è come il lettore si immagina Holmes, o almeno, come l’ho sempre immaginato io. Qualche anno più tardi, nel 2009, Guy Ritchie porterà al cinema una nuova versione di Sherlock Holmes, che stupirà pubblico e critica. Stavolta è Robert Downey Jr. a prestare il volto all’investigatore e al suo fianco troviamo Jude Law, nei panni del buon dottor Watson. Lo Sherlock di Ritchie non è soltanto l’uomo analitico e calcolatore a cui ormai ci avevano abituati, è anche l’uomo d’azione, proprio come ci viene descritto da Conan Doyle. Chi ha criticato il film e la rappresentazione di Sherlock Holmes chiaramente non ha mai letto i romanzi. L’incredibile chimica tra i due attori, la regia spumeggiante di Guy Ritchie e la comicità che serpeggia per tutta la pellicola rendono Sherlock Holmes e il sequel, Sherlock Holmes – Gioco di ombre, due film assolutamente da non perdere (e da rivedere in attesa del terzo).
Infine, menzione d’onore va fatta per la geniale serie del 2010 Sherlock, scritta da Steven Moffat e Mark Gatiss (anche creatori della serie cult Doctor Who). Quattro stagioni da tre episodi l’una più uno speciale, L’abominevole sposa, la serie è una rivisitazione in chiave moderna delle opere di Arthur Conan Doyle. Protagonisti sono Benedict Cumberbatch, perfetto nel ruolo di uno Sherlock Holmes sociopatico, e Martin Freeman, probabilmente una delle versioni meglio riuscite del Dr Watson. Su Sherlock avrei da dire migliaia di cose, è una delle serie più geniali e meglio riuscite degli ultimi anni, che ho visto e rivisto e che so ormai a memoria. In Sherlock non esiste un solo punto di forza, è tutto l’insieme che funziona alla perfezione. Sceneggiatura impeccabile, due attori che insieme fanno scintille, picchi di drammaticità che si alternano a momenti di pura comicità. Una serie assolutamente da vedere, anche per potersi godere uno dei migliori Moriarty di sempre, portato in scena da Andrew Scott, mostruosamente bravo.
A cosa si deve lo straordinario successo del personaggio di Sherlock Holmes?
Sicuramente al fatto di essere stato caratterizzato così bene. È incredibile che il primo libro sia stato scritto in appena tre settimane, a meno che Conan Doyle non covasse quel personaggio da molto più tempo e andasse aggiungendo pazientemente un dettaglio dopo l’altro fino a ritrovarsi con un personaggio talmente definito che aspettava solo di prendere vita sul foglio. Poi va detto che Holmes è nato nel momento giusto; è il figlio prediletto del positivismo, pertanto non poteva non avere un simile successo nella seconda metà del XIX secolo. Meno chiaro è come sia sopravvissuto al secolo del positivismo, ma è anche vero che è stato trasformato in mille modi. Oltre ai film già citati, vogliamo ricordare Senza indizio di Thom Eberhardt, dove, in realtà, il genio è Watson, ossia Ben Kingsley, e Holmes, uno stupendo Michael Caine, è in realtà Reginald Kincaid, uno scalcinato attore, ubriacone, spendaccione e donnaiolo, che ha sfruttato la fama di genio grazie ai romanzi di Watson.
Poi ci sono i film ispirati al personaggio, ma dove Holmes non compare, come Il fratello più furbo di Sherlock Holmes di Gene Wilder, interpretato dallo stesso Wilder, con Marty Feldman, Madline Kahn e Dom De Louise, in pratica un cast misto di Frankenstein Junior e Silent Movie di Mel Brooks; peccato che il film non sia all’altezza né del detective né dei film di Mel Brooks.
Insomma, il personaggio ha oltrepassato il confine della pagina stampata o della pellicola impressionata e ha cominciato a vivere di vita sua. In altre parole, è diventato un mito nel senso letterale di μῦθος e forse non è il caso di dire “grazie a”, ma “nonostante” Conan Doyle.