Dal Giappone del XVII secolo, al resto del mondo, gli haiku non smettono di affascinare lettori e amanti della poesia.
Immaginiamo insieme per un momento il Giappone del XVII secolo, con le sue geishe-letterate, belle ed eteree tanto da sembrare finte che si muovono a piccoli passi nei loro zoccoli infradito, avvolte nei kimono fruscianti e colorati, con una grazia da fare invidia a qualsiasi modella. In quel Giappone di quattro secoli fa, in quella cultura permeata dallo spirito Zen (e si caro iCrewer, la New Age non si è inventata proprio niente, in Giappone si viveva Zen già quattro secoli fa), dove l’uomo e la natura sono in perfetta armonia, dove tra l’io e il non-io la linea di demarcazione viene cancellata, dove il bello o il brutto sono solo aggettivi, dove persino la morte è parte integrante della vita: in quel Giappone, illuminato, armonioso e lontano, nascono i versi Haiku.
“Lo Haiku (俳句) è un componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo e divenuto ormai famoso in tutto il mondo.
Sembra che la sua forma attuale derivi dalla poesia Waka (和歌) o poesia Giapponese (successivamente chiamata Tanka 短歌, poesia breve).
Il Tanka era una forma di poesia costituita da 31 More (semplicisticamente tradotto con Sillabe), divise in una sequenza 5-7-5-7-7.
I primi tre versi dovevano essere “autosufficenti”, quindi divenne naturale, nel corso del tempo comporre solo questi ultimi…
Indicato con il termine hokku (lett. strofa d’esordio), deve il suo nome attuale allo scrittore giapponese Masaoka Shiki (1867-1902), il quale coniò il termine verso la fine del XIX secolo quale forma contratta dell’espressione haikai no ku (俳諧の句, letteralmente “verso di un poema a carattere scherzoso”). Il genere haiku, nonostante già noto e diffuso in Giappone, conobbe un fondamentale sviluppo tematico e formale nel Periodo Edo (1603-1868).
Queste brevi informazioni storiche ci permettono di capire che, tecnicamente, dal punto di vista metrico, lo haiku è una brevissima poesia, solo tre versi, che segue lo schema sillabico 5-7-5 (e cioè primo verso di 5 sillabe, secondo verso di 7 sillabe, terzo verso di 5 sillabe) rigidamente costruito. La sua origine pare che derivi dal renga (che non è il noto cantante) ma una specie di gara o gioco poetico, nel quale i partecipanti, stabilito un primo verso come tema, aggiungevano altri versi da 14 o 21 sillabe che, composti indipendentemente o associati a catena, dovevano riprendere il primo della composizione precedente, l’ultimo verso doveva essere l’anticipo del successivo: una cosa che a pensarci adesso fa quasi venire il mal di testa ma che ai poeti giapponesi di quattro secoli fa, veniva spontanea e naturale, suppongo. I temi, in un primo tempo, furono satirici, comici o burleschi… e qui, consentimi di fare un piccolo e personalissimo inciso: il Poetry Slam di ultima generazione che dagli Stati Uniti si va diffondendo a macchia d’olio, si è inventato poco (tra Grecia e Giappone), a conferma del pensiero lavoiseriano che “nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si trasforma”.
Col passare del tempo i temi satirico-comici furono sostituiti da temi lirici, sentimentali o contemplativi e probabilmente, le su citate gheishe divennero oggetto di canto per i poeti giapponesi: non sapremo mai se anche le belle e colte (e dicono “molto disponibili”) signorine giapponesi siano state creatrici di haiku, la donna in Oriente, come in Occidente, a quei tempi non aveva certo ruoli primari anche quando superava l’uomo in bravura o cultura.
Lo haiku classico esige lo schema sillabico 5/7/5, tuttavia importanti autori l’hanno adattato seguendo uno schema più libero: la poesia, si sa, non si ingabbia mai in schemi rigidi. Uno dei quattro più importanti maestri giapponesi di haikù riconosciuti è Matsuo Basho, gli altri sono Yosa Buson, Isa Kobayashi e Masaoka Shiki: Basho è stato il primo a rinnovare il genere tipico della poesia giapponese, traghettandolo verso una forma più raffinata.
Matsuo Basho nasce nel 1644 e muore nel 1694 al termine di un pellegrinaggio. I suoi resti riposano nei pressi di un monastero buddista vicino al lago Biwa. Prima della sua morte scrisse il suo ultimo haiku: “Malato durante un viaggio/ sui campi riarsi i sogni/ vanno errando/”.
Anche diversi poeti italiani hanno lasciato che il fascino del Paese del sol Levante infarcisse le loro poesie; i versi di Giuseppe Ungaretti: “Mi illumino d’immenso”, spiegando il titolo, Mattina, racchiudono un contesto di naturale bellezza e di luce e, prestandosi a molteplici interpretazioni, si avvicinano notevolmente alla tecnica haiku, pur essendo versi liberi non metricamente inquadrati. E posso dimenticare di citare un’altro poeta a me caro per tanti motivi, in primis perchè conterraneo? Parlo del Premio Nobel Salvatore Quasimodo con l’arcinota Ed è subito sera: “Ognuno sta solo sul cuor della terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera/”. Anche questo breve componimento può essere considerato di stile haiku, pur non rispettandone la rigida metrica.
Altri poeti italiani si sono cimentati con i versi haiku, tra loro Umberto Saba, Mario Chini, Andrea Zanzotto ed Eduardo Sanguineti, che in una sua raccolta, Poesie, inserisce nella sezione “Corollario”, quattro haiku che aderiscono perfettamente alla metrica classica 5/7/5 che tradizione impone: “Sessanta lune:/ i petali di un haiku/ nella tua bocca”.
Può sembrare semplice scrivere in versi haiku, in realtà penso che non lo sia affatto: a parte la metrica da rispettare, racchiudere in tre versi un intero concetto richiede una capacità di sintesi non indifferente, oltre all’esigenza di esprimersi in forma poetica che è la base primaria per definire poesia una qualsiasi emozione o un qualsiasi moto interiore. A proposito (cade a fagiolo= nota l’alta poesia dell’espressione), al termine di questa breve incursione nell’universo della poesia haiku, riporto da “Attimi”, una raccolta di Mario Chini (1876 – 1959), un haiku dedicato a tutti coloro che si dilettano a scrivere in questa non certo facile forma poetica:
In tre versetti
tutto un poema, e, forse,
tutta una vita.