Il genere letterario di chi ha lasciato la propria terra natia
Caro iCrewer, bentornato nella rubrica in cui sveliamo le particolarità dei tuoi generi letterari preferiti e di quelli che meno conosci. Quello che ti sottopongo oggi è un genere vecchio come il mondo, tuttavia è tornato alla ribalta negli ultimi decenni con la fine degli imperi coloniali, della globalizzazione e delle grandi migrazioni: la letteratura della diaspora o dell’emigrazione.
Perché questo genere è chiamato così? Vedi, diaspora è un termine di origine greca che significa dispersione e con esso di solito si indicano i grossi movimenti migratori di un popolo, che in massa abbandona la propria terra natale a causa di guerre civili o religiose, epidemie, carestie o povertà per cercare altrove una vita migliore o perchè costretto.
Instaurarsi in un Paese straniero, in cui si parla una lingua diversa e la cui cultura ha pochi punti in comune con quella di origine, ha i suoi vantaggi ma anche le sue problematicità. Non importa quanto ci si sia integrati nella nuova terra o da quanto tempo vi si risiede: nessun posto sarà mai come la propria casa natale, ma al contempo non si riconosce più il luogo da cui si proviene.
Questa duplice sofferenza è ciò che contraddistingue l’autore della letteratura della diaspora o dell’emigrazione: i suoi romanzi parlano con nostalgia della madrepatria, del motivo per cui l’ha abbandonata e delle difficoltà nell’integrarsi in un altro contesto socioculturale. Questi temi sono dunque una dolorosa dichiarazione d’amore al Paese che fu, ma sono anche un tentativo di sensibilizzare il resto del mondo alla delicata tematica dell’essere un “rifugiato” o semplicemente uno “straniero“. Per fare ciò, l’autore scrive nella lingua dello Stato in cui ha trovato asilo e che lo ha accolto come suo cittadino, dimostrando così attaccamento anche alla seconda patria.
L’autore più celebre al momento di letteratura della diaspora è sicuramente Khaled Hosseini, ex-medico naturalizzato statunitense e originario dell’Afghanistan, il quale racconta nei suoi romanzi l’invasione del territorio afghano da parte dell’URSS negli anni Settanta.
Altra scrittrice della diaspora è l’albanese Anilda Ibrahimi, che dal 1997 risiede a Roma. Anche lei racconta la sua terra nei suoi romanzi, in particolare nel suo romanzo d’esordio in lingua italiana Rosso come una sposa (Einaudi, 2008) narra l’ultimo secolo di storia dell’Albania, dai primi del Novecento fino alla dittatura comunista di Enver Hoxha.
Ci sono anche autori di origini italiane che possono essere racchiusi in questo genere? Certamente: impossibile non citare lo scrittore e sceneggiatore statunitense John Fante (1909-1983), che racconta nella tetralogia di stampo autobiografico la storia dell’alter-ego Arturo Bandini e della sua famiglia, che dall’Abruzzo emigra negli USA per cercare fortuna, ma che si ritrova in una condizione di vita ancora più disagevole. Questa ironica ma tragica saga è composta, secondo la cronologia dell’intreccio narrativo, da: Aspetta primavera, Bandini (1948), La strada per Los Angeles (1989), Chiedi alla polvere (1941) e Sogni di Bunker (1988).
Questi, caro iCrewer, sono solo pochi esempi di autori che sono emigrati verso altri Stati e che, nonostante i decenni vissuti all’estero, non hanno rinunciato a raccontarci della loro terra natale con una dolcezza, una sensibilità e un’auto-critica che solo chi ha dovuto abbandonarla sa esprimere.