Quando si finisce di leggere un bel romanzo ci si sente appagati. Si avverte una sensazione di pienezza data dalle parole che ci hanno coinvolto ed emozionato fino all’ultima riga del libro. È il caso della lettura che ho appena terminato: La lunga notte di Parigi, scritto da Ruth Druart e uscito di recente per Garzanti.
Un romanzo che ho amato molto e che per questo ho preso a piccole dosi, senza divorarlo come spesso accade quando un libro mi entusiasma. Si tratta di una storia che contiene tantissime emozioni differenti, situazioni che si incastrano una sopra l’altra dipingendo un quadro straordinario che lascia il lettore a bocca aperta.
Un romanzo in cui si respira l’amore in ogni sua forma; allo stesso modo ricco di dolore, disperazione e soprattutto di storia. Di quella pagina di storia che non potremo mai dimenticare per far si che mai più si ripeta. Parlo dell’occupazione nazista, dei campi di concentramento e di conseguenza della dignità umana venuta a mancare.
La lunga notte di Parigi: l’esordio letterario di Ruth Druart
La lunga notte di Parigi ha due grossi filoni narrativi: il primo ambientato nel 1944, durante il rastrellamento del quartiere ebraico a Parigi da parte dei soldati tedeschi, il secondo nel 1953, nove anni dopo la fine della Guerra. Due linee temporali e due aree geografiche. Conosciamo infatti due coppie: la prima francese, emigrata negli Stati Uniti, la seconda anch’essa parigina e sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz.
Il libro inizia in America, luogo in cui sono scappati Michelle e Jean-Luc per mettersi in salvo e soprattutto per garantire un futuro al piccolissimo Samuel. Un giorno però, la polizia convoca l’uomo in questura: i veri genitori di Samuel, nove anni dopo l’abbandono, reclamano il diritto di riavere a casa loro il proprio figlio. Come si arriva a questo punto? Che storia c’è dietro questo incipit così avvincente?
Beh, c’è una storia incredibile. La lunga notte di Parigi, come detto, è diviso in due parti: nella prima, subito dopo i fatti iniziali, il lettore viene catapultato negli anni della Seconda Guerra Mondiale. Jean-Luc è un operaio che lavora alle ferrovie francesi che viene selezionato per la manutenzione dei binari dai quali parte il convoglio che porta i deportati ad Auschwitz.
Assiste così alle condizioni di quelle persone che partivano per un lungo viaggio stipate nei vagoni come bestie. In origine nessuno sapeva – o fingeva di non sapere – quale fosse il destino di quegli uomini, donne e bambini; si pensava venissero portati a lavorare al Nord. Le condizioni disumane e le barbarie dei boches tedeschi, però, erano evidenti fin da quel primo punto di partenza.
Il protagonista prova a opporsi manomettendo le rotaie, ma finirà per ferirsi e verrà ricoverato in un ospedale. Luogo in cui conoscerà l’infermiera Charlotte che diverrà l’amore delle sua vita.
Quello che più mi ha colpito è la voglia dei personaggi di non sentirsi coinvolti in questi crimini. La voglia di ribellione nonostante il terrore e il regime. Lavorare alle ferrovie faceva sentire Jean-Luc colpevole, nonostante fosse obbligato e costretto con la forza. L’occasione per fuggire, o meglio la forza per scappare, arriva però un giorno inaspettatamente. Una donna, Sarah, prima di essere trascinata su uno di quei treni gli affida il suo piccolo neonato Sam, chiedendogli di portarlo in salvo.
Inizia qui la storia di Sarah e David, due ebrei che hanno appena visto venire al mondo il loro piccolo e che vengono catturati e portati al grande campo di concentramento. Le pagine in cui l’autrice ci fa entrare nel cancello del campo di sterminio sono strazianti. I giorni che passano e che pesano sull’anima di Sarah sono da nodo alla gola. Nodo che si scioglie solo quando i due verranno liberati e capiranno di essere riusciti a sopravvivere. Ruth Druart riesce nel difficile compito di trasmettere al lettore tutto il senso di vuoto che avvolge i suoi personaggi.
Durante qui mesi, intanto, Jean-Luc e Charlotte riescono a fuggire in America e a rifarsi una vita crescendo e amando il piccolo Samuel.
Passano nove anni e… credo di averti già raccontato tantissimo. Per lo meno il necessario per appassionarsi a questa storia che rende La lunga notte di Parigi un libro da leggere, assolutamente. Perché a questo punto del romanzo, le vicende storiche diventano lo sfondo, mentre inizia un percorso pieno di emozioni e di domande sul mestiere del genitore e sull’amore in generale.
Ti confesso amico iCrewer che l’epilogo per me è stato strappalacrime. Lo dico sempre: quando uno scrittore riesce a provocare emozioni così forti al lettore, significa che la sua opera ha vinto. Che sia da premio letterario o no, quando un lettore si immedesima e vive l’esperienza dell’autore, l’obbiettivo è raggiunto.
C’è una domanda che i due superstiti di Auschwitz si fanno, anche a distanza di anni: Come può essere successo che l’uomo abbia saputo dimostrare tanta crudeltà? È la domanda che mi faccio anche io ogni volta che guardo un film o un documentario che tratta quel periodo della storia. Mi viene in mente una famosa canzone di Francesco Guccini, poi cantata anche dai Nomadi, che dice
Io chiedo come può un uomo, uccidere un suo fratello
e poi ancora
Io chiedo quando sarà, che l’ uomo potrà imparare, a vivere senza ammazzare, e il vento si poserà
Auschwitz (la canzone del bambino nel vento), 1967, album Folk beat n1
La lunga notte di Parigi, nonostante la pesantezza dei temi e del periodo trattato, è un libro che scorre bene. L’autrice ha una forte dote narrativa e come detto, il lettore viene coinvolto dall’inizio alla fine. Personalmente mi sono anche molto affezionato ai personaggi, ben caratterizzati e ben raccontati attraverso le loro azioni.
Curiosa ed efficace ai fini della narrazione, la scelta di dividere i capitoli secondo il nome del personaggio che ne sarà il protagonista. Bella anche l’idea della scrittura in prima persona per due personaggi (non faccio spoiler) e della terza per gli altri.
La lunga notte di Parigi è un libro che consiglio a chi ha voglia di immergersi in una bella storia d’amore inserita in un contesto pieno di odio. Una storia di speranza, di determinazione a sconfiggere le difficoltà. Di vita reale, di abbandono e di ritorni. Una trama che fa davvero emozionare parecchio.