“Erano i giorni della peste a Napoli”…
Stiamo parlando dell’immediato dopoguerra, di un‘Italia distrutta e di un popolo vinto in attesa di essere liberato. Malaparte, attore protagonista di una guerra che aveva sconvolto i popoli nel fisico e nell’anima e, ormai lontano dalle ideologie fasciste, si fa carico di una realtà difficile da raccontare a parole.
Secondo lo scrittore toscano la pelle, nel vero senso della parola, è l’unica cosa che si può salvare in una realtà disfatta e senza controllo. Nel libro, vincitori e vinti si confondono in una Napoli che Malaparte considera allo sbando, scelta come prima città da liberare, ma incapace di nascondere la propria miseria, da sempre ostentata e priva di filtri quasi “fosse eterno protagonista di un teatro di miserie e inganni”.
“Nuda come l’antica metropoli mediterranea, medioevale, rinascimentale, spagnolesca, rinascimentale e barocca, decadente e detritica, priva di una pelle che copra e dia forma alla straziata umanità pulsante del suo corpo sventrata”
LA TRAMA
Una terribile peste dilaga a Napoli dal giorno in cui, nell’ottobre del 1943, gli eserciti alleati vi sono entrati come liberatori: una peste che corrompe non il corpo, ma l’anima, spingendo le donne a vendersi e gli uomini a calpestare il rispetto di sé. Trasformata in un inferno di abiezione, la città offre visioni di un osceno, straziante orrore: la peste – è questa l’indicibile verità – è nella mano pietosa e fraterna dei liberatori, nella loro incapacità di scorgere le forze misteriose e oscure che a Napoli governano gli uomini e i fatti della vita, nella loro convinzione che un popolo vinto non possa che essere un popolo di colpevoli. Null’altro rimane allora se non la lotta per salvare la pelle: non l’anima, come un tempo, o l’onore, la libertà, la giustizia, ma la “schifosa pelle.”
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