Ti ricordi quando ti ho segnalato questo libro?
La campana in fondo lago
di Lars Myttyng
L’ho richiesto perché la trama mi aveva intrigato.
Non mi sbagliavo.
La campana in fondo al lago mi ha tenuto compagnia nei primi giorni della quarantena.
Bisogna proprio amare questo tipo di romanzo, perché non è facile seguire la trama quando incontri nomi del tipo: “…Skrapanatta, il giorno del giudizio”, oppure Favang e Tretten, Losnesvatnet.
Sono tutti nomi norvegesi, proprio come l’autore, che in queste pagine ha trasfuso tutto l’amore per la sua terra d’origine.
La campana in fondo al lago è ambienta in Norvegia, siamo nei primi del 1800, e la vicenda inizia in un paesino dal nome particolare, Butangen, ossia Lingua di terra abitabile, perché è l’unico punto abbastanza pianeggiante lungo il lago Losnesvatnet, da ospitare un insediamento.
Giusto per darti un’idea ti ricordo che la Norvegia ha una varietà geografica particolare con escursioni termiche e paesaggi che differiscono tra sud e nord, ricca di fiordi simili a braccia che si insinuano nella costa verso il mare, altri che rasentano catene montuose e circondano grandi ghiacciai, dove ti sembrerà di essere protagonista de L’era glaciale. Una descrizione che potrai trovare anche in questo nostro articolo Ultimo viaggio di Amundsen.
Ritorniamo alla nostra storia e a questo piccolo pezzo di mondo che vive praticamente in sincronia con le stagioni, anzi con ritmi semestrali. Infatti è in inverno che si fanno visite, si stipulano matrimoni, si compra l’aratro o la polvere da sparo, in quanto è più semplice percorrere il lago ghiacciato con le slitte, diversamente dai mesi estivi, molto brevi, dove è preferibile raccogliere il muschio, portare gli animali in alpeggio, piuttosto che camminare nella fanghiglia.
Emerge forte il senso di appartenenza e, laddove alcuni sognano di andare altrove, questo pensiero viene immediatamente detronizzato dimostrando che chi c’è stato nell’altrove non ha trovato nulla che non si facesse nella piccola cittadina di Butangen.
“Il futuro non riservava altro che fatiche, cose che si potevano trovare in egual misure a casa propria, dove quantomeno era possibile condividerle con parenti e amici. Era così dappertutto, a nessun forestiero era concesso trasmettere i propri esuberanti geni al carattere introverso dei valligiani del Gudbrandsdalen.”
Tutta la storia ruota intorno alle campane gemelle, anzi Campane Sorelle, forgiate con l’argento più puro donato dal padre delle due sorelle gemelle nate unite dalla vita in giù, che hanno avuto una vita breve ma intensa per l’abilità creativa nel tessere con il telaio.
Le campane sono il bene più prezioso per l’intero villaggio.
Tra realtà e fantasia, tra mistero e credenze popolari, parte integrante degli abitanti di questo piccolo villaggio, si snoda la storia della discendente e protagonista Astrid Hekne, una donna forte e determinata, sveglia ed intelligente ed in sintonia con le sue antenate. La sua forza e complessità sono la punta del triangolo che si forma all’arrivo di due “forestieri.
Il primo è il nuovo pastore, Kai Schweigaard, che si propone di portare un’aria nuova in quel posto dimenticato da Dio e che decide di costruire una chiesa più moderna a scapito della stavkirke,
la chiesa in legno costruita interamente a mano con legno proveniente dai boschi di Butagen e doviziosamente intagliati dagli artigiani locali.
E che all’inizio sembra voler portare l’amicizia instaurata con la giovane Astrid ad un gradino superiore, salvo poi ritirarsi quando lo scambio della vecchia chiesa con la nuova diventa tangibile.
L’altro è Gerhard Schönauer, un architetto tedesco inviato al villaggio per disegnare la vecchia chiesa per poi essere ricostruita interamente a Dresda.
Provenienti da mondi e da studi differenti: entrambi in conflitto con se stessi, ambedue attratti come falene dalla giovane. Entrambi, quasi il riflesso opposto l’uno dell’altro, sottolineano nel romanzo come il mistero e la tradizione siano parte fondamentale della campana in fondo al lago.
E poi ci sono i personaggi di contorno, che consumano la propria vita in una routine quotidiana nascosti nell’ombra della tradizione e della paura dei cambiamenti.
Butangen e la sua gente sono come il legno che scalda, si deteriora ma tenace resiste e protegge quel che gli viene affidato; a sua volta il metallo delle campane è vigoroso, minaccioso promemoria contro coloro che tentano di offuscare memorie e volontà di un popolo.
La storia appare come sospesa tra realtà davvero avvenuta e fantasia di uno scrittore, ed è ciò che mi ha avvinto alla lettura.
Questo sentore di storie, raccontate davanti a un caminetto nelle fredde sere d’inverno, mi ha catturata e portata con sé tra gli abitanti di un territorio reso aspro dalla presenza del generale inverno per la gran parte dell’anno. Gente abituata a faticare, avvezza alle situazioni dolorose per le quali piangere due lacrime e poi fare quel che andava fatto, anche se ciò comporta grandi sacrifici.
Uomini e donne che ascoltano e osservano la natura con attenzione riconoscendone i segnali, persone che fanno tesoro delle vite degli avi, dei loro errori, dei loro moniti e insegnamenti tramandati per generazioni attraverso le leggende.
Sì, tutto il racconto è intriso delle tradizioni e delle credenze norrene, che i personaggi vivono nel quotidiano in modo talmente naturale che mi è venuto facile credere che le Campane suonassero davvero a loro piacimento.
Insomma, è un romanzo che prende poco alla volta ma insistentemente e, quando si arriva alla fine, ci si accorge che si vuole stare ancora lì, tra la neve e i boschi di Butangen, per continuare a vivere con i suoi abitanti, perché c’è ancora molto da raccontate su di loro.
Alla fine del libro l’autore ci avverte che è il primo di una trilogia e io spero di poter leggere anche il seguito.
Te lo consiglio caro iCrewer, se ami immergerti in vicende lontane nel tempo condite di leggende, troppo spesso dimenticate, che rendevano forse più accettabili gli inevitabili ostacoli della vita (che oggi potrebbero tornarci utili in questa fase della nostra vita!).
Buona lettura.