Vincenzo Monti, o il Dante ingentilito, come lo nominarono per merito dello stile prettamente manierista unito a svolazzi eterei che sfoggiò nel Cantica in morte di Ugo di Basseville, il componimento che vantò ben diciotto ristampe in pochi mesi e che inneggiava a sentimenti antirivoluzionari e fedeli alla Roma papalina. Ma partiamo dall’inizio, dalla nascita di questo poeta che fu il più grande esponente del neoclassicismo italiano. Nato a Ravenna nel 1754, perfezionò il proprio latino a Faenza, dove intraprese studi di giurisprudenza e li lasciò in favore della medicina. In realtà già da quegli anni il Monti si caratterizzò per una fiorente ispirazione e una predilezione per Virgilio da cui trasse mola tecnica poetica.
Entrò, per merito di un componimento in occasione di un matrimonio presso la famiglia papale, nelle grazie di Pio IV, al secolo Gianni Braschi, che lo nominò segretario del nipote e lo introdusse alla corte pontificia. I quindici anni più prolifici della sua produzione con lavori che fece rappresentare sia in privato che in eventi pubblici. Il suo stile rimase, anche in questi anni, ancorato alla bellezza dell’accademia arcadica, un neoclassicismo che non muterà più anche dopo, quando, fuggito da Roma nel 1797, approda a Bologna rinnovandosi in un giacobinismo che sembrò di facciata.
Vincenzo Monti, il più grande esponente del neoclassicismo
Un uomo nel suo tempo, ma diciamo anche del nostro, quando con la velocità di un cambio d’abito, Vincenzo Monti passò da essere nelle grazie papaline, a predire la grandezza del generale Bonaparte e ad anelare la liberazione d’Italia per sua mano. Fu dopo la battaglia di Marengo che, nonostante l’avvilizione del suo cuore italiano, Vincenzo Monti scrisse Per la liberazione d’Italia, tra adulazioni e destreggiameti verso i nuovi detentori del potere. Consapevole del nuovo ordine mondiale, Vincenzo Monti non volle identificarsi con la reazione rappresentata dalle forze clericali, di cui pure si era nutrito e pasciuto.
Dopo la vittoria di Napoleone sui territori italiani e l’unificazione in un unico Regno, Vincenzo monti diventò un vero e proprio oracolo della lingua italiana. Accademico di gran calibro, docente di eloquenza e poesia all’università di pavia e membro dell’Istituto storiografico italiano, era l’incontrastato re dell’intellighenzia milanese. Un vero e proprio intellettuale di regime, lo definiremmo oggi.
E in effetti i salti e i volteggi di Vincenzo Monti, per ingraziarsi il potere di turno, assomigliano un po’, mi perdoni il lettore, alla comunicazione di terrorismo di alcuni virologi di oggi, impegnati quanto più possibile a giustificare con dati catastrofici le scelte governative. Chissà, magari Monti sarebbe stato un moderno Burioni nel 2020.
Vincenzo Monti rimane ai posteri per una grandiosa e toccante traduzione dell’Iliade, per ultimare la quale dovette utilizzare testi in latino e in italiano, digiuno com’era di greco. L’espressione più eloquente del neoclassicismo che fu la base di tutta la sua produzione.
Ebbene, dopo tutta questa dissertazione su Vincenzo Monti, vorrei esprimere su di lui un mio umilissimo parere, l’opinione di chi ha saggiato le sue traduzioni sulla pelle, dizionario di greco alla mano e una pazienza che doveva essere messa alla prova, ora su ora, verso su verso, aoristo su aoristo. Nonostante io sia più incline al manicheismo del Risorgimento piuttosto che all’elasticità delle vedute politiche di Monti, trovo la sua produzione ciò che di più sublime abbia prodotto la poetica italiana.
Niente a che vedere con le parole in libertà, prive di originalità e di sentimento dei poetastri moderni. In Monti c’era tecnica, studio, sudore nelle rime, nelle similitudini, nella ricerca delle parole che meglio evocassero sentimenti. Quando, per scrivere questo articolo, ho dovuto riguardare alcuni versi di Vincenzo monti, mi sono ricordata di quanto sia bella la poesia neoclassica, derivata direttamente dalla scuola dei poemi greci e latini, la sua musicalità, l’architettura delle strofe, il ritmo matematico delle frasi.
Sostengo da molti anni che le muse non mi parlano, che non amo la poetica ma non è vero, me ne sono ricordata: non apprezzo la modernità, Alda Merini su tutti. Non mi sento coinvolta e spesso trovo i versi mediocri e un po’ patetici. Voglio dire, se sei problematico e depresso non c’è motivo che scrivi poesie, puoi prendere antidepressivi in tranquillità. Altra questione sono le opere grandiose di argomenti vari trattati dai veri poeti, da quelli che non necessariamente parlano della loro solitudine ma trattano la storia del mondo, guardano gli avvenimenti attraverso un filtro precluso a noi comuni mortali.
Grazie a Vincenzo Monti per avermelo ricordato.