Per l’articolo di oggi potevo scegliere di segnalare uno dei due libri sportivi in uscita, non so spiegarti il perché ma quando ho visto di cosa trattasse il libro di Bruno Mola, mi sono detta che era quello giusto. Non che non mi fossi occupata di questo sport ma Le leggende del Basket (Diarkos), questo il titolo del libro, mi dava la sensazione di entrare a contatto con un mondo magico, di conoscere meglio personaggi straordinari, con tante storie da raccontare e da scoprire. In qualche modo, un omaggio a quei campioni che nel tempo, solcando i parquet di tutto il pianeta, hanno lasciato nel mondo sportivo un’impronta importante. Non avrei mai immaginato che uno dei personaggi a cui il giornalista aveva deciso di dedicare un capitolo del suo libro, a distanza di due giorni dall’uscita nelle librerie, si sarebbe trasformato in un ricordo struggente. Il destino, quello beffardo che ti fa lo sgambetto quando meno te l’aspetti, ha deciso di consacrare uno dei miti più grandi del basket portandolo via da tutti coloro che lo amavano perché Kobe Bryant o Black Mamba, questo era il soprannome con cui lo chiamavano gli affezionati, è stata realmente una leggenda del basket mondiale, anzi, come direbbe il mio collega Stefano, era “il Basket”.
La notizia della sua morte, avvenuta domenica scorsa per un incidente con il suo elicottero, è rimbalzata in un attimo a livello planetario e tutto il mondo sportivo si è fermato sgomento, quasi incredulo, incapace di accettare la sua scomparsa. Lo hanno ricordato tutti, indistintamente, chi con una parola, chi abbassando lo sguardo come i suoi ex compagni di squadra, chi con un pensiero scritto, i social sono stati invasi per ore dai commenti: da Tramp a Obama, dalle star musicali a quelle sportive, italiane perché Kobe aveva vissuto in Italia, con tutti aveva condiviso la sua passione per il Basket, quella che lui chiamava la mia ossessione.
Una ossessione nata seguendo il padre Joseph Jellybean Bryant, grande cestista, che nel ’84 aveva deciso di continuare la sua esperienza agonistica in Italia giocando per cinque stagioni in Serie A2 passando da Rieti a Reggio Calabria e Pistoia, per chiudere la sua carriera in A1 e diventare allenatore. Che Kobe amasse il nostro Paese lo sapevano tutti; quando da Filadelfia arriva in Italia, ha appena sei anni, respira l’aria dei palazzetti, va a scuola, è perfettamente integrato, lo ricordano con la sua bicicletta e il pallone sotto braccio, pronto a scendere in campo alla fine della partita per tirare a canestro: e non sbagliava mai.
Il ritorno in America non aveva impedito al campione americano di mantenere intatti i legami con il nostro Paese che raggiungeva spesso per rivedere i luoghi e le persone con le quali era rimasto sempre in contatto. Anche le foto rimandate dai media lo inquadrano con la maglia del Milan del quale era tifoso o l’amicizia con Totti e Del Piero, quella profonda con Federica Pellegrini incontrata e conosciuta durante un mondiale e non è un caso che alle sue quattro figlie avesse scelto di dare nomi prettamente italiani come Gianna la sua seconda figlia chiamata affettuosamente Gigi, vittima insieme ad altre 8 persone del tragico incidente.
Una vita spesa ad inseguire un sogno che aveva realizzato con un’impegno quasi maniacale, guardando con occhi di ammirazione i grandi che lo avevano preceduto, dai quali aveva assorbito la mentalità giusta per conquistare una propria identità. “Se non credi in te stesso, chi ci crederà?“ Kobe era così, sicuro di sé, forte, veloce, un’elevazione e un’agilità come pochi, una grande tecnica, capace di un agonismo esasperato, trascinatore, fortemente convinto che dal campo si dovesse uscire felici per aver fatto tutto il possibile. “Non importa quanto segni. Quello che conta è uscire dal campo felice”.
Vent’anni di successi straordinari, giocando sempre nella stessa squadra, la stessa maglia giallo blu, quella dei Los Angeles Lakers, con i quali conquista ben 5 titoli NBA, selezionato 18 volte per fare parte degli All Star Game. Nel 2003, ormai famoso, la sua immagine viene colpita duramente da una denuncia per stupro da parte di una ragazza che successivamente rifiutò di testimoniare patteggiando un risarcimento prima del processo, ma l’episodio non lo ferma, cambia il numero di maglia e con il 24 entra a far parte della nazionale americana con la quale vince le olimpiadi del 2008 e del 2012. Sotto la guida di Phil Jackson, per lui più di una guida, gioca fino al 2016 quando decide, alla fine della gara contro gli Utah Jazz, di togliersi la maglia giallo blu e di uscire di scena segnando ben 60 punti. Nella stessa serata tra l’ovazione del pubblico, Bryant darà l’addio definitivo al basket con una bellissima lettera che ha fatto il giro del mondo e dalla quale nel 2018 è stato tratto un cortometraggio animato premiato con l’Oscar.
Kobe lascia definitivamente il basket giocato, ma inizia una nuova vita fatta di progetti, In California apre la Sports Academy o la Mamba Sports Academy. per allenare i ragazzi più giovani; cinque campi da basket, cinque campi da pallavolo, due campi da beach volley, un campo da football, una struttura per gli E-sport, una scuola di jitsu e una fondazione di beneficenza chiamata MAMBA Sports Foundation. Nei suoi progetti più importanti il desiderio di insegnare il suo modo d vedere lo sport, la sua dedizione, la voglia di superare le difficoltà, lui che dopo tre infortuni gravissimi era riuscito a tornare in campo e ricominciare a vincere. Sulla sua vita e la sua straordinaria carriera sono stati scritti molti libri, ti consiglio Un Italiano di nome Kobe. Il nostro amico Bryant: la storia mai raccontata di Andrea Barocci
Le leggende non nascono a caso, rimangono nella memoria collettiva non solo per ciò che possono aver dato ma per avere conservata intatta la propria umanità nonostante la grandezza delle loro gesta. Kobe Bryant ha amato il basket più di se stesso dedicandogli la vita, ma ha lasciato a tutti noi la sua parte migliore.
Ti lascio con questo video stupendo, è la lettera d’addio di Kobe Bryant al suo mondo…
Ciao Spiderman!
https://youtu.be/x3x5C3iNLKo